SUL SALARIO LEGALE, PER ORA MINIMI SONO I MARGINI D’INTESA

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Meloni: “Coinvolgiamo il CNEL”. Se così fosse, il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, in passato a rischio di abolizione, verrebbe investito del suo compito più importante dal secondo dopoguerra

La premier Giorgia Meloni ha riunito il fronte delle opposizioni (al netto di Italia viva che non ha aderito alla proposta di legge del campo largo del centrosinistra) a palazzo Chigi assieme al vice Antonio Tajani e alla ministra delegata al welfare e alla previdenza sociale Marina Calderone, oltre ai sottosegretari Fazzolari e Mantovano.

Alla fine del confronto, durante il quale la presidente del Consiglio sembrerebbe avere escluso una volontà del centrodestra di procedere in via parlamentare a un emendamento soppressivo della proposta delle minoranze (quasi) unite sul salario minimo legale a nove euro lordi all’ora, Giorgia Meloni ha dichiarato l’intenzione di rinviare la questione alla ripresa dei lavori per giungere a un dialogo trasversale, sui temi del lavoro povero e del salario dignitoso, che sia condiviso e non divisivo sul piano tanto politico quanto sociale.

A quest’ultimo proposito, forse spiazzando le previsioni delle stesse forze di opposizione in Parlamento, da Azione al PD al movimento 5 stelle alla sinistra ecologista, ha annunciato il proposito di sollecitare l’intervento del CNEL, il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, che è l’organismo di rilevanza costituzionale nel quale trovano rappresentanza la generalità e pressoché totalità delle sigle datoriali e sindacali. Il CNEL, va ricordato, è investito dalla Costituzione di compiti molto importanti, che prevedono la formulazione di pareri e proposte, anche di legge, sui temi del lavoro, dell’occupazione e delle politiche attive.

Le successive leggi ordinarie dello Stato hanno inoltre integrato le missioni del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro facendone l’organismo preposto a riunire e inventariare, in forma dinamica, tutti gli atti della contrattazione collettiva nazionale e territoriale, centrale e decentrata, al fine di monitorare i livelli di copertura delle tutele concertative sul mercato del lavoro, pubblico e privato, e di vigilare sulla dinamica salariale, che è il maggiore tema del contendere fra maggioranza e minoranza.

Giorgia Meloni ha precisato agli organi di stampa, intervenuti a consuntivo della riunione svolta ieri a palazzo Chigi, che il presidente del CNEL ed ex ministro di Berlusconi e Draghi, Renato Brunetta, sarebbe disponibile a ricevere in qualunque data le opposizioni per un confronto aperto sulla questione dei livelli retributivi che, oltre che minimi, devono essere dignitosi.

 

Il rispolvero del CNEL, al di là di ciò che nobilmente recita il dispositivo costituzionale, sarebbe già di per sé un fatto quasi sensazionale, se si considera che tale organismo collegiale è stato finora attivato pochissime e rare volte, dal secondo dopoguerra a oggi, sui capitoli affidatigli dalla legge fondamentale della nostra Repubblica. Motivo per cui qui si tratta di capire se Meloni abbia voluto attuare un diversivo, una delega di responsabilità, o intenda restituire vigore a una norma rimasta fin qui in naftalina. Saranno le prime settimane di settembre a dircelo.

Secondo la premier di Fratelli d’Italia, in più, la questione del lavoro povero non si contrasta unicamente con la fissazione di un salario minimo per legge, il quale secondo lei potrebbe addirittura dispiegare effetti opposti, portando viceversa a un livellamento verso il basso di retribuzioni orarie ben più generose previste da vari settori della contrattazione collettiva. Con la conseguenza, aggiunge Meloni, che si colpirebbero più persone di quelle che ne potrebbero trarre un beneficio.

Il lavoro povero, ha precisato la Premier, dipende il più delle volte dal contesto sociale e familiare del lavoratore, ragione per cui anche con un salario lordo da nove euro all’ora potrebbe verificarsi la permanenza nella condizione di povertà quanto meno relativa.

Se questo è il ragionamento del capo del governo, allora però lei medesima ammette che in Italia vi è un problema di sostegno al reddito che va oltre il pilastro lavorativo e salariale, e che attiene quindi agli strumenti di contrasto alla povertà come tale sia nei periodi di occupazione che in quelli di disoccupazione involontaria: pertanto, all’abrogazione del reddito di cittadinanza dovrà fare seguito una nuova e diversa misura universale sia per i non occupabili, sia per gli occupabili temporaneamente inattivi da riqualificare professionalmente e scolasticamente.

Tornando invece alla questione principale, quella salariale, Meloni ha insistito sull’esigenza di ridurre ancora più incisivamente il costo del lavoro, per la quota corrispondente al cuneo contributivo e al prelievo fiscale su tredicesime, straordinari e fringe benefit, e di predisporre incentivi che semmai estendano i benefici della contrattazione collettiva verso chi, a parità di mansione aziendale svolta, ne è tuttora scoperto o è soggetto a contratti pirata o precarizzanti.

Con che risorse, lo si vedrà nella legge di stabilità finanziaria e di bilancio per il 2024, sebbene sia evidente fin da ora che ci si concentrerà sui redditi retributivi al di sotto dei 30.000 euro lordi annui.

Anche questa, però, potrebbe essere quella che in economia si chiama “la trappola del prigioniero”, nel senso che così facendo si rischia di livellare verso il basso quelle professionalità e quei talenti che, sottopagati in relazione al merito e alle competenze, potrebbero trovare più utile emigrare e lasciare il nostro Paese.

Dunque, la battaglia politica e sociale sul salario minimo, e sulle coperture necessarie per agevolare la sua applicazione estensiva fra i datori di lavoro al fine di neutralizzare nella prima fase di avviamento gli eventuali maggiori costi lavorativi lordi, riprenderà alla fine di agosto, o meglio alla prima metà di settembre in considerazione del lungo calendario vacanziero che è stato deliberato da Camera e Senato, incuranti della circostanza che in queste settimane si stanno acuendo le difficoltà materiali per molte famiglie chiamate non solo a rinunciare alle vacanze ma pure a privarsi di molti generi di prima necessità alimentare e medica.

Se i salari reali non sono cresciuti negli ultimi decenni, ha concluso Meloni, è perché la performance di crescita economica macro dell’Italia è stata più deludente della media degli altri Paesi euro occidentali.
Alla premier, con tutto il rispetto e l’ammirazione a lei dovuti, vorremmo però chiedere: come mai, allora, non vengono rapportate alle oscillazioni del PIL, per la verità oggi ristagnanti, anche le indennità politiche nazionali e regionali che seguono viceversa parametri totalmente avulsi da quelli, assai più severi, dell’economia reale?

Dir politico Alessandro ZORGNIOTTI