La faccenda è così importante che nel suo discorso di insediamento Giorgia Meloni aveva ripetuto il concetto sette volte
“Vogliamo fare della sicurezza un dato distintivo di questo esecutivo”, il leit motiv, in onore del quale, nei mesi successivi, il governo si è prodigato a varare zone rosse e modelli Caivano, oltre naturalmente all’omonimo decreto, perché – ha spiegato la presidente del Consiglio in aula – “precondizione per qualsiasi libertà è la sicurezza dei cittadini”.
Come darle torto.
L’idea è così condivisibile – basta allargare il concetto alla condizione socio-economica, uscendo dal perimetro del law and order – che è difficile comprendere perché l’enfasi non si sia tradotta in misure concrete per garantire la sicurezza proprio della metà di Italia a cui la premier fieramente appartiene, ossia le donne.
Che, invece, continuano a morire e non per mano di immigrati feroci e sbandati di strada, bensì per lo più di mariti, ex compagni o conoscenti: circa 70 i femminicidi nei primi dieci mesi dell’anno, secondo statistiche non precise perché mancano persino indicazioni univoche su come contare i delitti, come ha segnalato a tutti i Paesi europei nel luglio scorso l’European Institute for Gender Equality (Eige).
“La violenza contro le donne è una piaga sociale e culturale che richiede strumenti di contrasto, prevenzione e sicurezza”, ha detto in occasione della rituale commemorazione del 25 novembre Giorgia Meloni, e chi meglio di lei può capirlo: prima donna nella storia repubblicana a capo di un esecutivo, è una madre single e separata, che non ha voluto rinunciare alle aspirazioni professionali, avendo il coraggio di rivendicarlo.
La presidente del Consiglio è insomma espressione dello spirito dei tempi, a dispetto del conservatorismo professato, il che rende francamente incomprensibile come possa voler privare le adolescenti della sicurezza che loro stesse, e i loro compagni di scuola, ricevano una adeguata educazione sessuale ed emotiva, precondizione per scardinare le dinamiche di possesso e di potere che sono spesso alla base di tragici episodi di violenza.
Eppure il suo governo, con un emendamento approvato in Commissione Cultura il mese scorso, sta cercando di proibire tali insegnamenti nelle scuole primarie e secondarie, cioè proprio quando bambine e bambini sono più fertili nell’assorbimento di esempi e modelli.
Analogamente, non si capisce a quali strumenti di contrasto si riferisca la premier, considerato che i centri antiviolenza sono scarsamente finanziati, per lo più sulla base di iniziative regionali, e che il cosiddetto “reddito di libertà” – introdotto nel 2020 per sostenere le vittime di violenza – benché rifinanziato dal suo governo fatichi a raggiungere le destinatarie: l’anno scorso dal varo della legge di Bilancio alle firme dei ministri necessarie a rendere operativa la misura sono trascorsi mesi.
Soprattutto, l’esecutivo che più di ogni altro si è schierato a fianco delle forze dell’ordine che garantiscono la sicurezza si è dimenticato di formarle proprio per imparare a gestire la delicatezza dei casi di violenza, liberando tutti gli operatori lungo la catena di pregiudizi e stereotipi che possono inficiare l’azione di prevenzione e di intervento: le linee guida previste dalla legge cosiddetta “Codice Rosso” del 2019, rafforzata nel 2023 proprio dal governo Meloni, non sono mai state emanate.
Che paradosso: la filosofia dell’esecutivo si basa sul concetto di famiglia, ma le sue colonne portanti non hanno adeguate garanzie di sicurezza. Si potrebbe credere che si tratti di un’idea patriarcale di famiglia, ma non lo vogliamo credere: per quanto distanti da Meloni, ancora pensiamo che su un tema così cruciale la presidente – al femminile – del Consiglio voglia lasciare un segno.
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