Esaurita, spero velocemente, la fastidiosa ma inevitabile saga euforica dei “ve l’avevo detto che sarebbe andata a finire così in Ucraina”, bisognerà che ci diamo una svegliata. Magari chiedendoci – noi che avvertimmo subito quanto fosse pericoloso il berlusconismo per il nostro Paese, mentre altri lo minimizzavano e si adattavano – dove ci condurrà l’intesa fra i due gorilla maschi ultrasettantenni che sovrintendono ai destini del mondo dal Cremlino e dalla Casa Bianca. E che non trovano luogo più adatto, per stringere il loro patto di potere, che il palazzo dei dispotici guardiani sauditi della Mecca e dell’oro nero.
Intanto, ricordiamocelo, in Ucraina non è ancora finita. Siamo proprio sicuri che il disperato sussulto di Zelensky, di fronte alla resa inevitabile, altro non sia che l’ultima mossa di un guitto? Sul quale maramaldeggiare dicendo come Trump padre che la guerra se l’era cercata lui, che bisogna dargli la paghetta (Trump figlio), che merita bacchettate sulle dita (Lavrov)?
La collezione di errori attribuibili a Zelensky, e la guerra per procura della Nato alla Russia di cui egli s’è fatto tramite, non possono oscurare la storica, radicata base di consenso dell’indipendentismo ucraino. Né il sentimento antirusso esacerbato dall’aggressione subita. Speriamo che si pervenga davvero al cessate il fuoco in Ucraina prima di Pasqua, ma la pace calata dall’alto sotto forma di espansione della sfera d’influenza di Putin, con il consenso di Trump, rassicura ben poco per il futuro. Se a parti invertite in Medio Oriente consideriamo inattuabile una pace duratura che calpesti la dignità della nazione palestinese, ugualmente il negoziato di Riad, preceduto dall’umiliazione pubblica di Zelensky, somiglia piuttosto a un azzardo che a una soluzione.
È la natura stessa dell’idillio conclamato fra Trump e Putin a segnare un cambio d’epoca inquietante. Compiacersi dell’accordo fra questi loschi figuri solo perché costituisce la riprova del fallimento di Biden e Von der Leyen – o sostenere contro ogni evidenza che si tratti della stessa minestra – rivelerebbe una vena di masochismo; o peggio la rinuncia a batterci per vivere ancora in sistemi democratici, non assoggettati a nuovi oligarchi e alla loro propaganda digitale di falsità.
La reciproca attrazione fra Trump e Putin che sta sovvertendo gli schieramenti internazionali non è certo una novità, visto che risale al 2016. Chi si somiglia, si piglia. Colpisce semmai che l’isolazionismo di The Donald, per quanto emendato dal globalismo di Musk, preveda rivendicazioni territoriali neoimperiali (dai ghiacci della Groenlandia alle sabbie di Gaza) ma al tempo stesso cedimenti territoriali al suo partner del Cremlino: allargati pure, Vladimir, i miei interessi sono altrove; con te se la vedano le litigiose nazioni europee e, se faranno i capricci, magari gli sciolgo pure la Nato. Quest’ultima non sarebbe di per sé una cattiva notizia qualora nel frattempo l’Ue fosse in grado di farsi Stato; ma ovviamente Washington spinge in direzione opposta spalleggiando ovunque le destre nazionaliste.
Al superbo Putin non sembra vero, 36 anni dopo la caduta del Muro di Berlino, di venir reintegrato primo interlocutore della potenza americana; anche se si tratta solo di una suggestione temporanea perché il bipolarismo Usa-Urss non è certo riproponibile oggi. Trump si avvale di una netta superiorità economica e tecnologica sulla Russia. Ma tra i due Putin è di gran lunga il più esperto se non altro perché il suo regime dura da un quarto di secolo, un paio d’anni più del fascismo italiano.
Gad Lerner



