Turcin, storia e vicende di un mulino delle Valli di Lanzo

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COASSOLO  – Una decina di anni fa, in un giorno di primavera, durante una passeggiata nei boschi di frazione San Pietro di Coassolo, una donna appassionata, caparbia e sicura delle proprie idee, Alda Penna, notò le rovine di un antico mulino.

Fu invasa dai ricordi d’infanzia e dall’atmosfera coinvolgente della natura ed allora decise di restituire a quelle rovine la loro forma originaria, riportando in vita il “mulino di Turcin” e con esso l’atmosfera, il mondo e le storie delle donne e degli uomini che di quel mondo facevano parte e che quelle mura racchiudono. Questo, combattendo contro tutti e soprattutto affrontando le difficoltà dell’immane lavoro che c’era da fare in quell’ambiente difficile e ostile, boschivo, freddo ed umido, a ridosso del ruscello Tessuolo. Ancora oggi Alda Penna è custode, col marito Massimo Scaiola, del mulino, pronta a raccontare la sua storia al visitatore curioso disposto ad ascoltarla.

L’ultimo mugnaio è stato Giacomo Bertetti detto, appunto, “Turcin“ per via della robusta corporatura, come testimonia Antonio Antonietti, imparentato con i Bertetti per via materna. Grazie a questi legami di parentela, Antonio trascorreva le estati della sua infanzia nel mulino, pienamente immerso nella quotidianità dei mugnai.

L’attività principale era, ovviamente, la panificazione che si iniziava molto presto, impastando e portando il forno a temperatura, per poi infornare le prime pagnotte verso le 7.30 del mattino. Poco dopo il pane, diventato successivamente celebre per la sua bontà, era pronto, ed iniziava l’afflusso dei clienti, giunti a piedi dalle frazioni di Castiglione e San Pietro. Stando alle testimonianze, questo pane, che veniva pesato con una bilancia a mano, costituita da un’unica asta graduata dotata di regolabili, appositi, contrappesi, aveva poco bisogno di companatici vari.

La vita del mugnaio era ovviamente solitaria, priva di festività e molto faticosa, basti pensare che i sacchi di farina, che venivano consegnati con un autocarro alla frazione Conferta, distante 400 metri dal mulino, dovevano essere portati a spalle dal mugnaio fino al forno attraverso una mulattiera; qualche volta avvalendosi dell’aiuto di ragazzi.

L’attività del mulino fu particolarmente importante nella Seconda Guerra Mondiale, specie nel periodo della lotta partigiana, quando si riprese temporaneamente la macinazione interrotta nel primo dopoguerra per produrre farina destinata a rifornire di prezioso pane bianco il mercato nero, servendosi dei cereali prodotti localmente. Il pane più diffuso era infatti quello nero oppure quello di farina di castagne.

Ulteriori notizie sulla macinazione nel mulino di Turcin dicono che, prevalentemente, qui si macinava mais, segale e un tipo di grano che cresceva a mille metri, precisamente in frazione Leitisetto. Per non mischiare le farine, ogni granaglia veniva macinata su una macina diversa, in tutto c’erano tre macine.

Nel 1944, quando in zona si aggiravano tedeschi e partigiani, che di tanto in tanto facevano macinare le loro granaglie e portavano anche sacchi di farina sottratti ai nazisti, gli abitanti del mulino furono protagonisti di un episodio inquietante. All’epoca Pietro Bertetti si era trasferito al mulino con la moglie e le due figlie per sfuggire ai bombardamenti di Torino.

Un giorno d’autunno un’autocolonna di tedeschi proveniente da Lanzo si avvicinò alla frazione San Pietro (costituendo perciò una minaccia per il mulino); le figlie e la moglie di Pietro andando in chiesa erano state bloccate dai nazisti e non potevano avvisarlo del pericolo imminente. Così i tedeschi, arrivati al mulino travestiti da partigiani, portando con sé alcuni Ucraini che non parlavano tedesco, come erano soliti fare per ingannare la gente, chiesero a gran voce del pane; Pietro, rassicurato dal fazzoletto rosso, li indirizzò al forno dove si trovava Turcin. Qui un tedesco cacciò il mugnaio colpendolo brutalmente col calcio del fucile, rubò il pane e lo portò ai suoi commilitoni che, a questo punto, si ritirarono.

Fu allora che Pietro Bertetti realizzò che si trattava di nazisti e provò un immenso sollievo nello scoprire che non avevano scoperto la farina col marchio del Reich precedentemente sottratta loro dai partigiani. La fretta del tedesco aveva fatto sì che prendesse la prima cesta di pane a disposizione, senza notare i sacchi di farina, salvando gli abitanti del mulino, altrimenti destinati a una sorte orribile.

Dopo quella brutta avventura il mulino è rimasto attivo fino al 1972, anno della morte di Turcin, che aveva continuato la sua attività in solitudine dopo la morte del padre Bartolomeo Bertetti e della madre Maria Bellino Roci, non essendosi mai sposato.

I proprietari attuali – con lavori durati dal 2002 al 2007 – hanno recuperato l’antico mulino, trasformandolo poi in un moderno ristorante e “bed & breakfast”, che ha iniziato l’attività nel 2013 con aperture estive e su prenotazione, con piena soddisfazione degli avventori, che possano godere anche della tranquillità e dell’amenità del luogo.

La speranza è che in futuro i visitatori sappiano anche “ascoltare” e percepire, perché in questo modo, mentre i grandi eventi sembreranno ancora una volta assorbire e inghiottire la gente comune, il mulino e il fiume sussurreranno le loro storie di fatica, coraggio e semplicità.

Si ringrazia Antonio Antonietti per la collaborazione.

La foto fa parte dell’archivio degli autori scriventi

Gessica Liberti e Franco Cortese – Notizie in un click