Un allenatore di basket, un professore di destino

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Bogdan “Boscia” Tanjević non ha mai allenato solo squadre: ha modellato identità. Nato nel 1947 a Pljevlja, nell’allora Jugoslavia, arriva in panchina in un’epoca in cui il basket stava ancora cercando un linguaggio. Lui quel linguaggio lo ha riscritto.
A Sarajevo, con il Bosna, costruisce il suo primo capolavoro: nove anni di visione, due titoli jugoslavi, la coppa nazionale e soprattutto la Coppa dei Campioni. Non un trofeo, ma un manifesto: il club di una città ferita che diventa regina d’Europa giocando un basket moderno, corale, colto.
La Jugoslavia lo vuole in Nazionale nel 1980: arriva l’argento europeo del 1981, ma la sua strada devia presto verso l’Italia. A Caserta trova un progetto, non un club. Lo porta dalla A2 alla Serie A, getta fondamenta tecniche e culturali per quella che diventerà una delle storie più romantiche del nostro basket.
A Trieste replica il metodo: pazienza, crescita, due promozioni in A1, un’idea di gioco che lascia il segno più dei risultati.
Milano lo chiama nel 1994 per guarire un gigante. Boscia non rattoppa: ricostruisce. Nel 1996 firma il “double” Scudetto–Coppa Italia, sfiora la Korac e accumula 71 vittorie che sanno di rinascita.
Ma è l’azzurro il suo destino più luminoso: tra il 1997 e il 2001, l’Italia gioca finalmente un basket adulto. Agli Europei del 1999 è oro, inatteso e meraviglioso. Una Nazionale che non vince per inerzia, ma per idee.
Poi l’Europa continua a riconoscerlo: Francia, Turchia, ancora finali, ancora argenti mondiali. Ma il lascito più prezioso non sta nelle bacheche: sta negli occhi di chi ha lanciato. Delibašić, Bodiroga, Gentile. Talenti diventati campioni perché qualcuno gli ha insegnato non a giocare meglio, ma a pensare meglio il gioco. Questo è Boscia.