– Avvicinandosi a compiere un triennio di vita è naturale fare un bilancio del governo di Giorgia Meloni, il primo, come si sa, guidato da una donna e insieme dall’esponente di un partito la cui cultura politica non si è mai riconosciuta nell’antifascismo che ha caratterizzato la democrazia italiana postbellica.
Un governo che ha avuto il destino di trovarsi a vivere un singolare contrasto. Da una parte, all’esterno, un ambiente sfavorevole — via via sempre più difficile, punteggiato da forti e crescenti tensioni dello scenario internazionale nonché da evidenti scricchiolii nel quadro delle alleanze dell’Italia con i suoi partner e alleati tradizionali —; e invece dall’altra parte, all’interno, un ambiente più che favorevole caratterizzato da una progressiva evanescenza dell’opposizione, travagliata da una crisi di idee, di programmi e di leadership che in pratica l’hanno resa e continuano a renderla del tutto inoffensiva.
Paradossalmente, però, è stato nell’ambito attualmente più tormentato e difficile, quello della politica estera, che il governo ha saputo dare le migliori prove di sé. Senza dubbio per il ruolo centralissimo in questo ambito della Presidente del Consiglio. Nessuno vuole sminuire le capacita della struttura diplomatica italiana (una dei nostri migliori apparati burocratici) e del suo capo, il ministro Tajani, ma non c’è dubbio che la personalità, il temperamento e le capacità di Giorgia Meloni hanno fatto la differenza. Una grande differenza: riusciamo a figurarci l’immagine di sé che avrebbero dato Conte o Gentiloni seduti accanto a Trump al posto della premier nella riunione dell’altro giorno alla Casa Bianca?
Guardando però oltre la politica estera il bilancio del governo della destra non appare gran cosa. Dopo tre anni, ormai arenato il progetto del premierato, messo definitivamente da parte quello dell’autonomia regionale differenziata, e infine di fatto incagliato sullo scoglio albanese il disegno di contrasto all’immigrazione illegale — di fatto è giunta alla meta solo la legge sulla separazione delle carriere dei magistrati, mentre è abbastanza vicino alla stessa meta il disegno del ministro Valditara, volto a dare nuove Indicazioni nazionali (alias programmi) all’intero ciclo scolastico, dalla scuola primaria al Liceo.
Personalmente giudico opportunissime entrambe le iniziative, così come sono favorevole anche all’idea del ponte sullo stretto di Messina peraltro ancora allo stato di progetto (tra parentesi: perché non intitolarlo ad Alcide De Gasperi, padre della rinascita postbellica del Paese e al quale, se non sbaglio, l’Italia nulla ha mai dedicato di particolarmente significativo?).
Tuttavia, anche tenuto conto dell’assurda lentezza necessaria qui da noi per decidere e realizzare ogni cosa (a proposito: ma perché mai un governo che dispone della maggioranza di cui dispone quello attuale non è in grado di sfrondare spietatamente la giungla burocratico-amministrativa responsabile di questo stato di cose?), anche tenuto conto di ciò, bisogna ammettere che comunque dopo un triennio il bilancio complessivo del governo non appare particolarmente ricco di realizzazioni. E invece punteggiato da incomprensibili ma significative timidezze (non si capisce ad esempio perché un governo serio debba farsi ricattare da poche migliaia di balneari o di tassisti scalmanati).
Guardando le cose più dall’alto, ciò che forse è più interessante notare, però, è che l’arrivo al potere di questa nuova destra non ha rappresentato alcuna vera svolta. Né quella assurdamente temuta dall’opposizione — all’insegna di un autoritarismo arieggiante il fascismo — ma neppure quella riguardante lo stile di governo, una svolta nel rapporto tra governo e Paese. Credo di non essere il solo a pensare che l’Italia stia vivendo da molto tempo una fase di profondo, drammatico declino.
Se ciò è vero, allora è di questo che Giorgia Meloni, io penso, deve trovare il modo di parlare. Per dire al Paese le cose come stanno: chiamandolo a un esame di coscienza, incitandolo ai compiti e ai rimedi necessari. Senza indorare la pillola ma senza neppure tacere i problemi e le carenze enormi che da oltre vent’anni ci tengono bloccati o ci stanno ricacciando indietro.
Che stanno creando non solo un crescente disagio sociale ma altresì una sorta di pericolosa mestizia rinunciataria, la tentazione che si avverte in molti campi di gettare la spugna, di lasciar perdere, «tanto qui è tutto inutile».
Lo tenga a mente la nostra presidente del Consiglio, alla quale per fortuna l’ambizione non fa certo difetto: tutti i governanti sono buoni a vantare le proprie benemerenze (vere o presunte), ma solo quelli che si chiamano statisti sono capaci di dire le verità sgradevoli ai propri concittadini, di promettere loro «sudore, lacrime e sangue».
Ernesto Galli della Loggia



