Una buona notizia: si può fare causa per i danni causati dal cambiamento climatico

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La Corte di Cassazione ha pronunciato una sentenza che segna una svolta storica: anche in Italia i giudici possono entrare nel merito delle cause sul cambiamento climatico. Non si tratta più solo di campagne di sensibilizzazione, petizioni o mobilitazioni simboliche: ora è possibile chiedere – e ottenere – giustizia in tribunale.
Nel 2023 Greenpeace, ReCommon e 12 cittadine e cittadini hanno intentato una causa civile contro ENI, il Ministero dell’Economia e la Cassa Depositi e Prestiti. L’accusa è pesante: aver contribuito in modo sostanziale al riscaldamento globale, violando gli impegni presi con l’Accordo di Parigi e causando danni concreti, presenti e futuri, alla salute, all’ambiente e ai diritti fondamentali delle persone.
ENI e gli azionisti pubblici hanno provato a cavarsela con l’argomento che “non è materia per i tribunali, ma è politica economica, strategica aziendale, è libertà d’impresa”.
La Cassazione ha, invece, risposto con parole nette: un giudice può e deve esprimersi quando sono in gioco diritti fondamentali e danni ambientali documentabili.
La libertà d’impresa – ricorda la Corte – non è illimitata: l’articolo 41 della Costituzione parla chiaro, non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale né recare danno alla salute o all’ambiente.
Questo significa che anche in Italia si apre la strada alla climate litigation, come già avvenuto in Paesi Bassi, Francia e Germania.
Potremo chiamare in causa ENI, e altre aziende, le loro strategie, i loro bilanci, i loro piani industriali e di transizione, davanti a un giudice.
Anche lo Stato, in quanto azionista, non potrà più voltarsi dall’altra parte.
A costoro non sarà più sufficiente “fare greenwashing”, darsi un’immagine “verde”, sostenibile, ecologica senza esserlo davvero nei fatti.
I rapporti di sostenibilità dovranno essere credibili# e le promesse rispettate: ora conteranno i fatti, le emissioni, i danni reali. E i rischi che si fanno correre ai cittadini e ai lavoratori.
La sentenza è anche una risposta alle cause che ENI ha promosso contro Greenpeace e ReCommon, per il solo fatto di aver osato raccontare e denunciare. Le aziende fossili usano le aule di giustizia per intimidire chi le contesta. Ma ora quelle stesse aule possono diventare anche uno strumento di democrazia e di lotta per l’ambiente.
Il processo andrà avanti a Roma. Il giudice dovrà decidere sul merito.
Ma intanto una cosa è certa: la giustizia climatica è entrata anche nei tribunali italiani.
Infatti, la sentenza della Cassazione apre la strada a un principio generale: in Italia è legittimo chiedere a un tribunale di valutare la responsabilità di qualsiasi soggetto – pubblico o privato – che abbia contribuito in modo significativo al cambiamento climatico con le proprie attività.
Dunque non solo ENI, ma potenzialmente anche aziende energetiche diverse da ENI (come Edison, Snam, Italgas…), grandi aziende del cemento, dell’acciaio, della chimica pesante (tra i settori più emissivi), colossi della logistica e dei trasporti con un impatto ambientale documentabile, produttori di automobili che hanno ignorato o ostacolato la transizione ecologica, banche e fondi che finanziano massicciamente combustibili fossili, e persino aziende di largo consumo (moda, agricoltura intensiva, tech…) se è dimostrabile il nesso tra le loro attività e danni ambientali concreti.
Il punto centrale è il contributo alle emissioni climalteranti (CO₂, metano, ecc.), l’impatto negativo documentabile sul territorio e sulle persone, anche attraverso omissioni, ritardi, disinformazione o ostacoli alla transizione, la violazione di impegni internazionali o principi costituzionali, come quello dell’utilità sociale dell’impresa o del rispetto dei diritti fondamentali.
Questo significa che le aziende – grandi e potenti – non sono più intoccabili se i loro profitti passano sulla pelle del pianeta e dei suoi abitanti.
La sentenza non condanna ENI (ancora), ma dice che un giudice può condannarla.
E questo principio vale per tutti. Non è più tempo di nascondersi dietro la scusa del “fare impresa”.
Ora, davvero, la giustizia climatica può camminare anche sulle gambe del diritto civile. E chi ha inquinato, dovrà rispondere.