«Sono stata comprata e venduta. Tutte le formule per abbellire la cosa non servono a nulla». Queste le parole pronunciate da Jessica Kern, nata da utero in affitto, che testimoniano che il bambino è la prima e principale vittima di tale prassi, oltre che esserlo le stesse donne, il cui corpo viene usato ad uso e consumo, come delle vere e proprie schiave, per i desideri di avere figli a tutti i costi da parte di altre persone.
Un nuovo studio e saggio – ad opera della psicologa e psicoterapeuta belga Anne Schaub-Thomas – dal titolo Il grido segreto di un bambino (Lindau 2024, pp. 376), svela ora proprio i danni psicologici dell’utero in affitto sui “figli” di tale pratica. Essere strappato a sua madre, infatti, «lo espone a un’associazione di morte legata a un’ansia di abbandono», perché un neonato non ha «una coscienza di sé sufficientemente autonoma al di fuori della presenza della madre», scrive infatti l’autrice.
Il legame indissolubile tra madre e figlio
Negare il legame indissolubile che c’è, già dall’inizio della gravidanza, tra madre e figlio significa essere fuori dalla realtà, dal momento che la vita prenatale e i primi mesi dopo il parto costituiscono un periodo fondamentale sia per lo sviluppo psichico del bambino sia per la vita futura dell’adulto. Infatti «fin dalla nascita, il bambino è pronto a comunicare con chi lo circonda e la relazione che si instaura con la madre che lo ha messo al mondo è fondamentale, in primo luogo perché è la base per lo sviluppo di tutte le altre funzioni». Di qui, sottrarlo alla madre appena nato, gli procura una «sofferenza segreta, pervasiva e indelebile» che non tarderà a manifestarsi.
La teoria dell’attaccamento
L’attaccamento alla madre è alla base del senso di sicurezza del neonato, come dimostrato dal medico, psicologo e psicoanalista britannico John Bowlby, teorico proprio di questa teoria. Dunque i bambini molto piccoli sono disturbati dalla separazione, anche solo per pochi giorni. Infatti esiste «una coscienza affettiva, prerazionale, che permette al bambino, ben prima della nascita, di percepire e discriminare finemente, tra la massa delle percezioni, quelle che significano una relazione con un altro essere vivente». Il neonato ha una precoce esperienza emotiva della madre ed è «naturalmente in attesa di un legame d’amore ininterrotto con la mamma che conosce intimamente ormai da nove mesi».
Pertanto «recepisce negativamente sia gli stati di stress intenso e improvviso, latente o ripetuto, sia gli stati di dimenticanza prolungata, di disattenzione o addirittura di negazione generale della sua presenza nel grembo materno». E in effetti l’interazione tra madre e figlio in grembo a livello cellulare è indubbio che abbia risvolti anche sul piano psicologico. Il bambino quando «nasce ha una gamma di memorie sensoriali ed emotive che funge da sostegno, dandogli un senso di continuità nella sua esistenza e, quindi, quella sicurezza che gli consente di affrontare l’ignoto».
D’altra parte «la fase essenziale della costruzione dell’identità di un neonato consiste nel ritrovare fuori, quando è nato, la persona che conosceva quando era dentro. Non trovarla, perderla, porta a una spaccatura fondamentale», anche perché il neonato «percepisce con notevole intensità qualsiasi situazione di perdita». L’utero in affitto, inoltre, è caratterizzato da almeno tre forme di discontinuità e distorsioni del naturale movimento della vita, come evidenzia il saggio di Anne Schaub-Thomas: la prima riguarda la manipolazione medica e tecnica, per la quale la fecondazione avviene al di fuori dell’intimo incontro sessuale tra uomo e donna; la seconda «avviene nell’utero di una donna estranea al bambino concepito. Questo evento coinvolge la storia personale, familiare e sociale della madre surrogata»; la terza vede lo strappo più grave del neonato «dalla madre naturale e da tutto ciò che lo ha accompagnato/impregnato per nove mesi per esser consegnato ai genitori committenti».



