A volte ha significato anche un carico improprio di problemi e responsabilità, non dovuti ma scelti, proprio per le caratteristiche di questo sindacato. Un’esperienza che in Europa oggi è prevalentemente italiana, che per questi motivi dovrebbe essere valorizzata come interesse generale del nostro Paese. Qual è il punto che rende possibile questa sintesi o che, in alternativa, la nega? Il riconoscimento del valore sociale del lavoro come elemento fondante delle diverse scelte che vengono effettuate, così come previsto dalla nostra Costituzione che sancisce l’irreversibilità di fatto dei diritti del lavoro.
Queste crisi hanno avuto un fattore comune, il tentativo di scaricare su chi lavora i costi maggiori, con calo e stagnazione dei redditi, esponenziale crescita della instabilità lavorativa e diminuzione dei diritti sociali, a cui spesso solo il sindacato si è opposto. In un contesto nel quale, a causa dei problemi prima richiamati, sono cresciute diseguaglianze, paure e ansie; sono cambiate le abitudini, si perde la fiducia nel futuro e si spera (spesso sbagliando) di potersela cavare da soli.
Per troppe persone – quindi – il lavoro negli anni non è più risultato l’elemento fondamentale di crescita ed emancipazione personale, creando un problema da cui non sarà facile uscire. Non a caso, molto spesso i giudizi espressi sulla condizione generale del Paese sono peggiori di quelli, pur negativi, sulla propria condizione personale, secondo il noto detto “Io, speriamo che me la cavo”.
Fortunatamente non è ancora la maggioranza dei lavoratori quella che ha immaginato come via di fuga possibile solo quella personale e non collettiva, ma si è comunque contribuito a far crescere un esasperato individualismo che sta pervadendo la nostra società. Un grande paese non può ridursi così, facendo venire meno le basi comuni per una ripartenza.


