Il vertice, a Washington, fra la premier conservatrice Giorgia Meloni e il presidente democratico Joe Biden è iniziato con la manifestazione, da parte di quest’ultimo, delle condoglianze e del cordoglio dell’amministrazione federale degli Stati Uniti nei confronti dell’Italia e delle famiglie delle vittime degli eventi naturali calamitosi degli scorsi giorni nelle Regioni della pianura Padana
Un tema molto sentito quello dei cambiamenti climatici estremi, anche oltre Atlantico, e per ovvie ragioni storiche, tanto che lo stesso Biden ha annunciato provvedimenti governativi volti a tutelare i lavoratori e a rafforzare le condizioni di sicurezza idrogeologica.
Entrando nel merito dell’agenda dei lavori congiunti, alla base della prima visita di Stato di Giorgia Meloni nella capitale statunitense come Premier, la questione dominante è stata quella del consolidamento delle relazioni binazionali fra Roma e Washington, i cui andamenti vanno oramai oltre i soliti schemi rituali che vedevano il Primo Ministro italiano, di volta in volta in carica, recarsi alla Casa Bianca per ribadire i sentimenti di solida eterna amicizia.
Giorgia Meloni era molto attesa da Joe Biden per affrontare temi dal valore extra ordinario, dalla conferma del pieno sostegno all’Ucraina all’appoggio congiunto verso strategie in grado di assicurare commerci mondiali liberi ma nello stesso tempo giusti e corretti, basati sul rispetto di minimi essenziali e non rinunciabili requisiti in termini di caratteristiche ambientali e lavorative, al fine di tutelare fabbriche, attività industriali, posti di lavoro e la stessa identità e dignità economica e sociale dell’Occidente democratico.
Un chiaro riferimento al rapporto con la Cina, che il massimo inquilino della Casa Bianca ha definito alla stregua di un interlocutore imprescindibile ma allo stesso tempo pericoloso, in forza della attuale vigenza, oramai dal 2019, dell’accordo con il quale l’allora governo Conte 1 – sorretto dal patto fra Salvini e Di Maio – fece dell’Italia il solo Paese del G7 vincolato strutturalmente alla nazione del Dragone asiatico attraverso un’intesa di tipo onnicomprensivo e trasversale all’intero scibile dei settori economici e di ricerca di comune interesse fra Occidente e Oriente.
In realtà, un complesso di memorandum più di valenza simbolica che non di efficacia concreta, se si considera che altri Stati del club del sette Grandi della Terra, pur non avendo mai aderito alla Via della Seta, hanno conseguito nel rapporto con Pechino, secondo la stipula di accordi più mirati e circoscritti, risultati economici e commerciali di gran lunga maggiori.
Per la Cina, dove Giorgia Meloni si è impegnata a recarsi prossimamente – secondo le parole da lei stessa pronunciate dal pulpito di Capitol Hill presso la Camera dei rappresentanti – la stipula dell’intesa con l’Italia riveste al tempo stesso un valore prima di tutto politico e geo strategico, la cui venuta meno – che sembra oramai inevitabile per palesi e lapalissiane ragioni di opportunità atlantista a cui Roma non vuole assolutamente rinunciare – potrebbe esporre l’Italia a una serie di ritorsioni dal punto di vista commerciale.
Eventualità, quest’ultima, tutt’altro che teorica e nei confronti della quale la Premier conservatrice italiana ha fatto comprendere che un simile passo sarà compiuto a fronte del sostegno a Stelle e Strisce per definire la delicata partita delle compensazioni a favore del nostro Paese il cui speciale posizionamento baricentrico ne fa un naturale interlocutore della Grande muraglia per tutta una serie di merceologie made in Italy molto apprezzate a estremo Oriente.
D’altra parte, tuttavia, l’Italia avrebbe comunque tutto l’interesse preminente a smarcarsi politicamente dalla via della Seta per una serie di altre fondamentali ragioni di politica industriale, in virtù della circostanza che nelle prossime settimane potrebbe essere raggiunto e siglato il memorandum di collaborazione manifatturiera fra palazzo Chigi e il gruppo Stellantis ex Fiat per riportare lo Stivale a essere di nuovo uno dei maggiori produttori mondiali di autoveicoli familiari e commerciali con un livello di almeno un milione di vetture fabbricate negli stabilimenti di proprietà della famiglia Agnelli Elkann dislocati nelle varie Regioni dal Piemonte alla Basilicata.
Un obiettivo giudicato fattibile e anzi auspicabile dall’amministratore delegato Carlos Tavares, ma rispetto al quale quest’ultimo ha messo in evidenza l’importanza vitale di predisporre, da parte governativa, un idoneo piano di incentivi per la classe media e di tutele contro le norme europee ecologiste più penalizzanti e nei confronti della netta capacità invasiva commerciale della sconfinata fabbrica automobilistica made in China.
In ogni caso, la “prima” del colloquio fra Meloni e Biden ha sortito gli effetti sperati da entrambe le parti, e del resto le premesse si presentavano già piuttosto buone in considerazione della nomina, frutto di una previa condivisione politica, del nuovo Ambasciatore statunitense a Roma.
Non meno secondaria l’ulteriore circostanza della sottolineatura dello storico contributo dell’Italia, attraverso le migrazioni dello scorso secolo, allo sviluppo e alla crescita di quella che Giorgia Meloni, parlando alla platea parlamentare bipartisan del Congresso, ha definito il faro e la culla della libertà e della democrazia nel mondo.
Infine, ma ancora più evidente sul piano delle concretezze, la prospettiva che a una fuoriuscita – sebbene temperata diplomaticamente da Roma verso Pechino – dell’Italia dalla via della Seta potrebbe corrispondere, grazie al corrispettivo dell’assist americano, l’ingresso dello Stivale nella via del Sahara, ossia delle materie prime minerarie ed energetiche nell’ambito di quel “piano Mattei” che la premier Meloni ha più volte richiamato nel corso delle conversazioni con Biden e con i parlamentari del Congresso e del Senato di Washington come strumento di diplomazia geoeconomica per sottrarre l’Africa dal giogo dello sfruttamento russo e cinese.
Dir politico Alessandro ZORGNIOTTI




