Gli Usa e il potere segreto contro diritti, giornalismo e libertà di informazione

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Fu l’ultima volta che incontrai Julian Assange da uomo libero”.

Ho riletto questa frase del coraggioso, necessario libro di Stefania Maurizi sulla persecuzione scientifica del fondatore di WikiLeaks, dei suoi collaboratori e delle sue fonti (‘Il potere segreto. Perché vogliono distruggere Julian Assange e WikiLeaks’, Chiarelettere), tante, troppe volte. Delle tante, troppe che turbano e indignano profondamente la ragione e la coscienza di chiunque abbia a cuore la democrazia e la libertà di stampa, è quella che più mi ha perseguitato, nei giorni seguenti alla lettura del testo.
Reca infatti quell’ultimo appuntamento in un caffè di Alexanderplatz, a Berlino, tra due individui — due giornalisti, peraltro — nel pieno della loro libertà, data 28 settembre 2010. Undici anni fa. Undici anni in cui il fondatore di WikiLeaks si è visto costretto a subire privazioni delle proprie libertà personali sempre più severe, per accuse sempre più infondate e pericolose. Non solo per se stesso, ma per il giornalismo tutto e per la credibilità di istituzioni — a partire da quelle statunitensi e britanniche — comunemente elevate a modello di democrazia a livello globale.
Sarà la semplicità del gesto negato, incontrarsi in un caffè in un pomeriggio qualunque, in una delle piazze più celebri d’Europa, per discutere di lavoro o quel che si vuole. Sarà la consapevolezza di tutto quello che è venuto dopo. Fatto sta che è quella frase, nella sua immediatezza, a imporre con maggiore impazienza la domanda: perché da oltre un decennio Assange non è più un uomo libero? E perché l’accanimento, nei confronti suoi, dei suoi collaboratori e delle sue fonti — anche solo presunte — di pesi massimi dell’Occidente come Stati Uniti e Gran Bretagna?
La risposta è complessa e inquietante. Maurizi la ricostruisce nelle 400 e più pagine del volume con la dovizia di dettagli, la passione civile e il sano furore democratico di chi ha lavorato sul materiale portato alla luce dall’organizzazione di Assange per oltre un decennio, spesso potendo recare testimonianza diretta di passaggi cruciali della sua storia.
La giornalista investigativa, prima all’Espresso e Repubblica e ora al Fatto Quotidiano, conduce infatti da anni una (pressoché solitaria) battaglia giornalistica per ottenere trasparenza circa le accuse mosse ad Assange, WikiLeaks e le sue fonti. Ha incontrato muri di gomma a ogni angolo, richieste di accesso agli atti con risposte gravemente mancanti e contraddittorie da autorità che dovrebbero, al contrario, trasparenza e correttezza. Si è vista pedinare a scopo intimidatorio, in più città, nel cuore dell’Europa, e strappare lo zaino con violenza, in pieno giorno. E ha dovuto lavorare in condizioni proibitive, più adatte a un regime non democratico che all’Occidente “libero” — finendo comunque sorvegliata insieme ad Assange durante le sue visite nell’ambasciata dell’Ecuador, in cui il creatore di WikiLeaks aveva trovato rifugio per sfuggire all’estradizione negli Stati Uniti che lui stesso aveva profetizzato — purtroppo correttamente — con un decennio o quasi di anticipo.
È grazie a questa dedizione cocciuta e all’incredibile, meticoloso lavoro di raccolta e analisi di ogni aspetto delle controversie intorno a WikiLeaks e ad Assange che il libro restituisce, finalmente nella sua interezza, l’oscena, grottesca indecenza che la loro persecuzione e incriminazione rappresenta per chiunque abbia a cuore i diritti democratici, a partire dalla libertà di informazione.

Arianna Ciccone