Attenzione alla rabbia

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Le proteste e gli incidenti di Napoli sono un misto di tante pulsioni diverse, che sicuramente qualcuno ha tentato di strumentalizzare (estremismo politico e criminalità). Ma sarebbe sbagliato dire che ieri sera in strada a protestare contro De Luca e il suo invito al lockdown c’erano solo neofascisti, ultras e camorristi. Chi dissente non va santificato, ma nemmeno criminalizzato. L’altro ieri a invitare il premier Conte a considerare la rabbia che monta nel paese non era stato un oppositore, un estremista né tanto meno un criminale, ma il capo dei deputati del Pd Delrio.
Perché la rabbia cresce davvero, e rischiamo altre esplosioni di malessere. Non c’è protesta senza qualcuno che soffi sul fuoco, per interessi di parte, legali o no. Ma la cosa più sbagliata è chiedersi soltanto “Chi c’è dietro?”. Perché è invece evidente chi c’è davanti. L’emergenza virus ha spaccato in due l’Italia, dal primo giorno e sempre di più. Non parlo delle passioni e delle contrapposizioni politiche. Parlo del tessuto del paese, e della colossale disuguaglianza che si è creata. Da una parte i garantiti, tutti i dipendenti pubblici (dagli impiegati comunali ai magistrati agli insegnanti e alle altre categorie) più quelli delle aziende titolari di servizi locali e nazionali a capitale pubblico o misto (trasporti, ambiente, infrastrutture), i lavoratori delle aziende che forniscono servizi di pubblica utilità (acqua, luce, gas, telefonia, radio, televisioni, informazione, web), e inoltre quelli dei settori privati risparmiati e a volte rafforzati dalla situazione (logistica e distribuzione per acquisti a distanza, grande distribuzione organizzata, comparto farmaceutico e sanitario). Tutte queste categorie, ed altre, hanno condiviso i disagi e le limitazioni, le paure di contagio e i rischi degli altri italiani, ma non hanno corso alcun rischio per il loro lavoro.
Dall’altra parte lo scenario cambia totalmente, e nemmeno ci sarebbe bisogno di descriverlo analiticamente. Ci sono le imprese e i negozi che hanno chiuso, i dipendenti che hanno perso il posto, oppure lo mantengono solo per il blocco dei licenziamenti, che rischia di essere una bomba a tempo, quelli che tra mille intoppi hanno avuto la Cassa Integrazione, con ritardo e spesso col fastidio che si riserva a chi insiste per avere il suo. Ci sono le partite Iva che hanno visto i loro settori spazzati via o ridimensionati in modo insostenibile, gli imprenditori che hanno dovuto chiudere provvisoriamente e quelli che lo hanno fatto definitivamente. Ci sono soprattutto quelli che dal mercato del lavoro erano già fuori da prima, e hanno visto azzerate le loro possibilità di entrarci o rientrarci. E ovviamente tra loro i giovani in attesa di occupazione o impiegati con contratti precari che sono stati spazzati via per primi.
Tutti, garantiti e non, hanno passato il lungo tunnel di questi otto mesi nella speranza che la fine della galleria fosse vicina. Magari hanno condiviso la gratificante narrazione dello sforzo comune, della capacità del paese di resistere all’aggressione. Ora che entriamo nel vortice della seconda ondata quel racconto non regge più. E nel disincanto nella nostra società le due grandi aggregazioni reagiscono in modo opposto: per i garantiti adesso è necessario e urgente innalzare la diga più alta per arginare la piena della pandemia; per tutti gli altri le nuove restrizioni sono la mazzata forse decisiva sulle speranze di ritrovare lavoro, ruolo, dignità al di fuori del circuito dei sussidi, del ristoro, degli ammortizzatori sociali.
Molti di loro si chiedono se davvero è stato fatto di tutto per prevenire o almeno attenuare questa seconda emergenza, e non hanno certo torto nel rispondersi di no. E immaginano che questa negligenza, questo improvviso lassismo dopo la tanto ostentata intransigenza al tempo del (primo?) lockdown siano dovuti proprio al fatto che chi decide sta di diritto nell’altro campo, quello dei garantiti. La ritengono l’ulteriore prova di una grande ingiustizia sociale, che è il primo propellente della rabbia.
Nei tempi della protesta sociale e giovanile di tanti anni fa furoreggiava una canzone che immaginava il racconto delle manifestazioni operaie e studentesche dal punto di vista scandalizzato della nobiltà. Si intitolava “Contessa”. Il rischio è di risentirla oggi declinata al maschile