Bersani: caro Pd, serve una nuova Cosa di sinistra e l’accordo coi 5 Stelle

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Dagli anni d’oro della Seconda Repubblica, quegli anni Novanta così ricchi di novità politiche, sono restati sulla breccia soltanto due signori

Diversissimi tra loro ma curiosamente nati lo stesso giorno, il 29 settembre: Silvio Berlusconi e Pier Luigi Bersani. Tre settimane fa l’ex segretario del Pd ha compiuto 70 anni e ha annunciato che non si ripresenterà alle elezioni e tuttavia non intende mollare: «Io penso che la politica non si faccia solo in Parlamento…». E infatti in questa intervista a «La Stampa» lancia una proposta operativa ad Enrico Letta per far nascere una nuova Cosa di «sinistra e pluralista» che unisca tutte le forze progressiste, mentre per i prossimi mesi lancia un allarme: non esporre Mario Draghi alla delegittimazione di una bocciatura a voto segreto come candidato presidente: «Occhio ragazzi: non facciamo dei disastri».

Enrico Letta, arrivando a definire «trionfale» la vittoria del Pd, ha pronunciato una frase sibillina: «La gente è più avanti di noi». Lei gli è amico: a cosa allude?

«Credo voglia dire che la destra si può battere e che per continuare a farlo occorra far leva su una spinta di fondo, unitaria, che va oltre le geometrie variabili nelle quali la sinistra si ritrova costretta e che raccoglie larga parte dell’elettorato rimasto dei Cinque stelle».

La sinistra italiana è specialista nel perdere il biglietto della lotteria: nel 1993 vinceste, guarda caso, a Roma e Napoli e poi perdeste le Politiche…

«In questi anni c’è stato un bisogno di novità, interpretato da lati diversi, Lega e Cinque stelle. Loro hanno sofferto molto dell’astensione, ma quel bisogno di novità c’è ancora: è sotto pelle. Per questo dico: il centrosinistra investa la sua forza in una nuova offerta politica con un tratto di novità credibile. Sapendo che nelle elezioni politiche non ci sono ballottaggi e si presenteranno decine di milionate in più di elettori».

Lei pensa che l’elettorato incerto possa essere attratto da una delle alchimie organizzative della sinistra italiana?

«Vediamo di capirci. Oggi io invoco con forza quello che chiamo campo progressista. Che è fatto di due cose. Le sinistre plurali che si ricompongono e un accordo con i Cinque stelle».

Ma il nuovo Ulivo lettiano sembra alludere ad un “partitone” e non ad una coalizione larga…

«Le parole mi vanno bene tutte. Sto alla sostanza. L’Ulivo era un processo che prometteva un nuovo partito. Sennò io e Letta non saremmo andati in giro per i Distretti, è chiaro? Se non immaginiamo un percorso verso una cosa unitaria, allora rifacciamo l’Unione. Che però è un’altra cosa. E io credo non serva».

E nel 2007 l’Unione non fece la forza…

«Non la fece! Perché se dobbiamo rappattumare l’Unione, per l’amor di Dio, possiamo farlo. Ma non è un messaggio al Paese. Qui dobbiamo strapparci un po’ la giacca».

Nel Pd sembrano coltivare l’idea di candidarvi, ospiti, nelle loro liste e poi ognuno torna a casa. Un filo di ipocrisia?

«Convengo. Spiego la novità che propongo. Va bene il meccanismo delle Agorà nelle quali il Pd chiama tutte le forze che sono disposte a sentirsi parte di una sinistra plurale e gli dice anche perché: dove vogliamo arrivare e con quale programma fondamentale. Si delinei un percorso. Alla fine ci potrà essere un “partitone” o anche una Federazione. Purché ci si metta in moto».

Pensa ci sia spazio per i liberali alla Calenda che non vogliono andare a destra?

«Io non escludo ma vediamo se ci troviamo d’accordo su un punto: in Italia e non solo da noi, si stanno organizzando due campi. Uno si chiama destra e uno si chiama sinistra. Se uno mi dice no, che esiste un fronte dei ragionevoli e uno degli irragionevoli, che comprende Lega ma anche Cinque stelle, io non sono d’accordo, E dico: pensaci caro Calenda, pensaci!».

Potremmo essere dentro un nuovo ciclo progressista partito negli Stati Uniti e proseguito a Berlino, Roma-Milano-Napoli che sta premiando le forze rassicuranti e non ansiogene, ma sappiamo pure che qui la stagione delle spesa pubblica a pie’ di lista sta per finire: la affrontiamo con un nuovo Fronte popolare?

«Quello in corso è un ciclo? Io non credo che possiamo ancora dirlo, Semmai vediamo le cosa sicure: le grandi issues sono globali – clima, pandemia, fiscalità per le multinazionali mentre altre sono più locali. Su tutto questo si stanno organizzando campi plurali, perché oggi in Europa non c’è un partito che sia sopra il 30 per cento! Ho fatto per 30 anni l’amministratore e non ho mai visto un anno come questo, nel quale i soldi non fossero un problema, ma controbatto: se noi facciamo 250 miliardi di investimenti, avremo 30-40 miliardi in più, malcontati, di spesa corrente. Se fai gli asili, ci devi mettere le maestre, se rafforzi la Pa, ci devi mettere la gente…».

Spesa che verrà compensata da crescita ed entrate fiscali?

«O recuperiamo subito almeno un terzo dell’ evasione fiscale, o abbiamo davanti un altro colpo allo Stato sociale. E ancora: 250 miliardi vogliono dire qualche punto in più di occupazione, ma attenzione: degli ultimi 600mila assunti in Italia, l’80% erano precari e di questi il 30% avevano contratti con meno di un mese. Oggi abbiamo 980 contratti nazionali, ma ne avevamo 410 dieci anni fa: sono contratti pirata e dunque ci vuole una legge sulla rappresentanza e sulla contrattazione. Così inizia un ciclo, mi spiego? In definitiva: durante quest’anno dobbiamo preparare le riforme, che il governo non potrà fare. Perché neanche Draghi è tenuto alle cose impossibili. Come una vera riforma fiscale. Il governo svolge ottimamente il suo compito: fronteggiare l’emergenza. Sanitaria ed economica».

Il governo può durare altri 90 giorni, poi 3 mesi di stallo per le elezioni e un nuovo governo. Oppure si possono trovare delle buone ragioni per stare assieme e votare fra 14 mesi. Per l’Italia cosa è meglio?

«Sulla presidenza della Repubblica stiamo preparando una scelta irrituale: tra un semi-inedito, la conferma del Capo dello Stato uscente, e un inedito: un presidente del Consiglio che di fatto si auto-rassegna le dimissioni. E se invece decidessimo di esser normali? Scegliendoci il miglior Presidente possibile e lasciando al Parlamento di decidere il destino del governo. Ponendo il traguardo della legislatura al 2023, ma senza la fiducia al cento per cento, di arrivarci».