Cacciari: “Per battere i populisti bisogna essere rivoluzionari”

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cacciari
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Quasi per pulsione inarrestabile siamo portati a razionalizzare a posteriori i fatti che commentiamo. Si tratti di una partita di calcio o delle elezioni americane, tendiamo a trasformare il fatto in una verità di fatto (la filosofia è maestra, d’ altra parte, nell’ operare queste metamorfosi). Ecco, allora, pontificare sulle ragioni per le quali Donald Trump non poteva che perdere e, di conseguenza, sulla “bontà” di quelle grazie alle quali il suo avversario ha vinto. In realtà, il risultato è stato alla fine deciso da casi estremamente semplici.

E ricordare questo è utile per ragionare con sobrietà e realismo sui casi che potrebbero attenderci in futuro. Ormai è chiaro che il voto postale ha svolto un ruolo decisivo, voto in gran parte di persone in difficoltà per la pandemia e certo non felici del modo in cui Trump la andava affrontando, facendo fallire i negoziati con i democratici per maggiori sostegni. Se Biden avesse vinto con i margini che gli venivano pronosticati, ciò non avrebbe potuto derivare che da un forte recupero dei democratici nella working class e da un successo pieno nel tentativo, impersonato dalla Harris, di coagulare intorno a loro il voto delle minoranze etniche. Questi successi politici non ci sono stati, se non in minima misura.

Le grandi faglie di rottura nella società americana rimangono, e il colossale problema di superarle sta tutto davanti alla nuova Amministrazione. Trump sconfitto si ritirerà, alla fine, nella propria caverna egoica, o continuerà a lavorare per drammatizzarle? Che punti seriamente a rovesciare il risultato con la Corte Suprema è ridicolo pensarlo, ma non dimentichiamo che i repubblicani hanno guadagnato voti alla Camera e molti fedelissimi di Trump sono stati eletti.

Certo, la sua sconfitta è anche il frutto(benedetto) del modo in cui ha impersonato, nel suo reality show, la figura del Presidente: provocando sempre lo scontro politico, anche là dove era possibile compromesso e mediazione, cercando costantemente di by-passare con azioni unilaterali le Assemblee rappresentative, ossessionando i suoi stessi colleghi repubblicani con i suoi mantra sul Muro, sulla contro-riforma in materia assistenziale, e puntando ovunque su deregulation e taglio delle tasse.

Questa linea è stata sconfitta, e la sua sconfitta peserà per tutti coloro che, nella sostanza se non nelle forme, l’ avevano sostenuta, in Europa e altrove. Certo, però, è lungi dall’ essere rovesciata la tendenza di lungo periodo che vede la crisi di rappresentatività delle Assemblee legislative e il sistematico ricorso a linguaggi e procedure di “emergenza” da parte degli Esecutivi. Ma ciò che è davvero lungi dall’ essere risolto e che sarà arduo risolvere per i democratici, americani e europei, sono le ragioni per cui Trump venne eletto e ancora in tanti l’ hanno votato.

Il passo traumatico tra Obama e Trump, con la sconfitta della Clinton, non si spiega, questo no, con semplici casi, con la semplice ideologia anti-casta, con le retoriche populiste del tycoon, con deficit culturali di qualche settore dell’ opinione pubblica (come invece è pessima abitudine di tanta sinistra locale)- e neppure con le drammatiche questioni tuttora aperte nella società americana, come quella razzista. Obama era stato portato alla presidenza sull’ onda del big crash del 2006-2007, a quella crisi aveva cercato di rispondere, ma alla fine del suo mandato le conseguenze sociali che essa aveva prodotto esplodono in tutta la loro drammaticità e complessità.

Disoccupazione alta, precarizzazione economica delle classi lavoratrici, perdita di reddito, ma soprattutto di status sociale, di vastissimi settori di ceto medio. E’ la destabilizzazione impressionante della base materiale su cui si regge la stessa idea di democrazia rappresentativa. Se il pluriverso del lavoro dipendente, delle professioni, del ceto medio vede minacciata la propria stabilità e vanificarsi le prospettive di crescita del proprio benessere (non solo, e forse neppure prioritariamente, sotto il profilo economico), è impossibile funzioni quella “virtù” di moderazione e giusto compromesso che regge la politica democratica.

L’opinione pubblica si va radicalizzando agli estremi. I moderati scompaiono, e chi ancora li va cercando cerca un caro estinto. La crisi, allora, non si risolve “moderando”, ma con disegni di riforma tanto radicali quanto razionali. La demagogia populista non si sconfigge, a questo punto, mediando con i suoi rappresentanti, ma affrontando quelle questioni, cavalcando le quali avevano potuto vincere, secondo una strategia opposta alla loro.

Si potrà rispondere alla crisi economica e sociale che ha colpito il perno delle democrazie occidentali soltanto se i loro governi sapranno ragionare e operare insieme nei confronti delle nuove grandi potenze economico-finanziarie multinazionali e approntare comuni strategie intorno alle grandi agende dell’ energia e dell’ ambiente. Politiche ridistributive attraverso i diversi sistemi fiscali, su scala nazionale, avranno fiato cortissimo comunque.

E’ un new deal dell’ intero Occidente democratico che diviene oggi necessario. E se non verrà impostato con rapidità e credibilità torneranno i Trump, come sono venuti dopo gli Obama. Ma questa volta con infinite più possibilità di restarci. Biden, il conservatore Biden, comprenderà che è venuto anche per lui il momento di essere, almeno un po’, “rivoluzionario”? La presenza della Harris mostra tale intenzione? Chi ha a cuore l’ Europa e lo sviluppo della sua democrazia dovrebbe sperarlo, o la concorrenza di democrazie autoritarie e “popolari” si farà sentire ben oltre la crescita del prodotto lordo e il saldo della bilancia commerciale.                                                                                                                             (Massimo Cacciari – la Stampa)