CONOSCERE PER CAPIRE: RIVOLTA NELLE CARCERI E “VIGILANZA DINAMICA”

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L’emergenza sanitaria negli istituti di pena, la rivolta in quelli di reclusione fra il 7 e il 9 marzo, la scarcerazione dei boss, la “veemente” protesta dei detenuti nella casa circondariale di Santa Mara Capua Vetere ai primi di aprile, seguite dalle recenti indagini nei confronti di 44 agenti di polizia penitenziaria ad opera della competente procura della repubblica, ci costringono a porci una domanda: perché?
Un passo indietro per compiere un passo in avanti nella comprensione – ovviamente parziale – del problema che sta affliggendo, in gran segreto, le carceri italiane e gli operatori in divisa che vi lavorano con drammatica determinazione e professionalità.
La graduale introduzione del sistema di “vigilanza dinamica” (circolari del Dipartimento della Amministrazione Penitenziaria del 13 luglio 2013 e del 23 ottobre 2015 che hanno configurato il sistema della “sorveglianza dinamica”, di cui, peraltro, c’era già traccia nella circolari del 24 novembre 2011, del 30 maggio 2012 e del 29 gennaio 2013) prevede che i detenuti stiano almeno per otto ore al giorno fuori dalle celle e lungo i ballatoi, autogestendosi impegnati anche in attività lavorative, di studio e trattamentali.
In circa il 95% degli istituti penitenziari italiani si applica sì tale sistema di vigilanza, ma senza, però, che i reclusi siano sul serio impegnati in attività rieducative e di recupero ai sensi dell’art. 27 della Costituzione: i detenuti si limitano a stazionare (e a ciondolare) nei corridoi delle sezioni detentive senza far o poter far nulla.
Nel corso del tempo si è avuto modo di riscontrare che tale sistema, pertanto, non abbia sortito alcuno di quei risultati auspicati posti alla base delle cennate circolari.
Detto con franchezza, questa diversa modalità di vita nelle carceri e di controllo da parte degli agenti di polizia penitenziaria è dovuta (silenziosamente, velatamente ma veritieramente) dalla sempre più ridotta presenza di questi ultimi in annosa assenza di turn over, oltre che dal sempre maggiore innalzamento della loro anzianità di servizio.
La diminuzione del livello di vigilanza da parte del personale di polizia penitenziaria, insita fatalmente nella sorveglianza dinamica, aggravata dalla vetustà delle strutture penitenziarie, è causa (o concausa) dell’esponenziale dilatazione delle aggressioni ai suoi danni per mano dei detenuti (dal 2015 ad oggi sono cresciute di circa il 15% annue), dell’incremento delle evasioni e, pari al 15-16%, degli atti di autolesionismo, tentati suicidi, colluttazioni e ferimenti all’interno delle mura carcerarie; incredibile a dirsi ma in alcuni casi si assiste alla costituzione di vere e proprie bande di carcerati che assumono, grazie ad atteggiamenti violenti ed intimidatori, il controllo sulla restante popolazione detenuta.
Ben vengano le innovazioni ma mi corre l’obbligo di osservare che il nostro sistema penitenziario non sembra essere pronto ad alcune di esse – come questa -, che rischiano di non garantire la sicurezza sociale, quella delle professionalità che gravitano dentro e intorno agli Istituti penitenziari (pensiamo, oltre agli appartenenti alla polizia penitenziaria, agli educatori, psicologi e personale medico e infermieristico, agli operatori del personale civile amministrativo, ai cappellani e agli altri rappresentanti di culti religiosi e, infine, ai volontariati), senza dimenticare l’incolumità delle stesse persone ristrette.
Quanto affermato ci conduce razionalmente a riflettere sulla impossibilità per tutti di accedere alle modalità di restrizioni c.d. aperte, in ragione della gravità del titolo di reato e per taluni comportamenti non consoni né corretti serbati in ambiente penitenziario: occorre prescrivere un approccio custodiale maggiormente rivolto alla rigidità e più dotato di una assidua e stingente sorveglianza.
Volgere lo sguardo in direzione di una rafforzata autonomia non solo dei Provveditorati Generali della amministrazione penitenziaria, ma anche degli istituti penitenziari, può risultare conveniente ed efficace, di modo che ognuno di questi possa avere la possibilità di gestire in proprio la popolazione detenuta, a custodia aperta o chiusa a seconda del rispetto di regole di condotta e comportamentali, all’interno di un chiaro ed intellegibile quadro normativo nazionale, teso ad escludere i reati di maggiore allarme sociale, mantenendo, d’altro canto, la possibilità per i ristretti a “custodia chiusa” di vedersi revisionare nel tempo il giudizio di pericolosità, con il transito alla “custodia aperta” a mo’ di concessione premiale (e viceversa).
Temo che bisognerà mettere di nuovo mano alla già pachidermica normativa di settore, provvedendo alla novellazione della legge 26 luglio 1975, n. 354 (ordinamento penitenziario), da ultima grandemente riformata dal decreto legislativo 2 ottobre 2018, n. 123 (in attuazione della legge delega 23 giugno 2017, n. 103) e, proprio alla luce dei fatti con cui abbiano dato inizio a questo breve scritto, dal decreto legge 10 maggio 2020, n. 29, il cui contenuto è stato riversato nel decreto legge 30 aprile 2020, n. 28, approvato dall’aula del Senato e, attualmente, all’esame della Commissione giustizia della Camera dei deputati.
Di certezza del diritto e della pena si ha assolutamente bisogno, nel campo penitenziario al pari di tutti gli altri settori lambiti dal diritto penale sostanziale e processuale.

prof. Fabrizio Giulimondi consulente giuridico – normativo presso la Presidenza della Commissione Agricoltura e Produzione Agroalimentare del Senato della Repubblica