Coronavirus, il medico che ha combattuto l’Ebola: “Questa guerra è più dura”

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An IFRC safe and dignified burial team respond to an alert from family members who have lost a loved one suspected of Ebola.

Aveva lasciato il lavoro da pochi mesi quando il Covid19 ha stravolto la vita del nostro Paese. Così, Claudio Blé, 65 anni, medico specializzato in malattie infettive e chirurgia, ha deciso di tornare sul campo all’ospedale San Giuseppe di Empoli per dare una mano e per mettere al servizio degli altri l’esperienza nella lotta contro l’Ebola

Partiamo dal suo rapporto con l’Africa…

Un rapporto di vecchia data. Ero giovane quando sono partito la prima volta. Subito dopo la laurea sono andato in Uganda a operare in un ospedale missionario. Poi ho avuto la possibilità di lavorare per alcuni anni in Etiopia, Mali e Tanzania. Sono tornato in Uganda vent’anni fa quando è scoppiata l’epidemia di Ebola

Una situazione drammatica, molto pesante.

Ricordo le tante vittime anche tra il personale sanitario. C’era però anche un bel clima di cooperazione e aiuto con il team internazionale dell’Oms. Io seguivo i reparti e mi sono occupato dell’impostazione di alcuni lavori epidemiologici

Rispetto all’Ebola, individuare e combattere il Coronavirus è più difficile?

Per certi aspetti sì. Circoscrivere la diffusione dell’Ebola può essere più facile. Per prima cosa, il contesto africano è molto diverso: In Uganda c’era un ambiente rurale e questo rendeva più facile arginare il contagio e monitorare i contatti tra le persone. Gli ambienti urbani, invece, favoriscono il contagio e riducono il controllo. E poi, l’Ebola, che può arrivare ad avere un tasso di mortalità addirittura superiore al 50%, ha delle caratteristiche che consentono di individuare i malati più facilmente

Per esempio?

Per esempio, è vero che l’Ebola si trasmette con facilità ma ha un’incubazione abbastanza breve e una sintomatologia evidente. E poi, non c’è il grande problema degli asintomatici che possono diffondere la malattia senza controllo

A differenza del Coronavirus…

Esattamente. E questo complica molto il contenimento, perché gli asintomatici sono difficilissimi da monitorare e controllare. Per questo, in un contesto così ampio e urbano, si è reso necessario chiudere tutto e ridurre al minimo i contatti tra le persone.

Si aspettava una diffusione così vasta del Covid19?

Assolutamente no, una diffusione sistemica e così vasta è spaventosa e non me la sarei mai immaginata. Resto comunque fiducioso ma consapevole che sarà una lunga battaglia

Per questo ha deciso di tornare in corsia?

Anche per questo. Recentemente, ho ricevuto una chiamata da un’altra struttura. Ci ho pensato su e ho deciso che volevo tornare a dare una mano. Ho scelto però di tornare a lavorare nell’ospedale che avevo appena lasciato, quello di Empoli. Lì, dove oggi ci sono interi reparti dedicati a Covid. Lì, dove gioco in casa

Gioca però una partita difficile, come si è convinto?

In parte per incoscienza, in parte per mia moglie. Anche lei lavora all’ospedale di Empoli come infermiera di malattie infettive nei reparti Covid. A volte è dura, ma la nostra forza è l’unione e la condivisione. Io e mia moglie parliamo la stessa lingua

Come è cambiato l’ospedale da quando lo aveva lasciato?

L’ aspetto nuovo che mi sono trovato ad affrontare è la dura condizione di isolamento dei pazienti. Sono rimasto molto colpito da questa sensazione di confinamento in cui è davvero difficile avere contatti con i loro cari. Per quanto riguarda i colleghi invece, lo spirito di collaborazione che ho ritrovato è lo stesso di sempre. E’ come se non me ne fossi mai andato

di Micaela Nasca