D’Alema: rimpiango il Pci, esperienza straordinaria, non l’Urss

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Massimo D’Alema, lei dove era quel 9 novembre dell’89?

Ero direttore dell’Unità, quindi vivevo gli avvenimenti in presa diretta.

E cosa provò quando seppe del crollo del Muro di Berlino?

Un senso di liberazione, perché anche se le prospettive apparivano incerte, la sinistra si liberava di un enorme fardello. Vale quello che mi disse qualche anno dopo Gorbaciov, quando gli chiesi se non si dovesse essere più prudenti. Lui mi rispose: “No, quel mondo andava abbattuto perché l’identificazione con quei regimi era un peso insostenibile per la sinistra”. Tanto più per chi come noi veniva da una esperienza, come quella del Pci, fortemente critica e dotata di grande autonomia culturale.

Proprio il tentativo di Gorba­­ciov rallenta il distacco, perché alimenta l’illusione della riformabilità del sistema sovietico. Il congresso del “nuovo corso” del Pci, in fondo, è stato questo.

Non c’è dubbio, per una fase noi coltivammo l’idea che potesse esserci una riforma democratica delle società dell’Est guidata da un riformismo comunista di cui Gorbaciov potesse essere un simbolo. In realtà, storicizzando, si deve riconoscere che il momento in cui la prospettiva di una riforma dei paesi dell’Est viene sconfitta fu a Praga. E già negli anni Settanta era in atto un processo di ossificazione di quei regimi, accelerata dalla crisi petrolifera e dall’innovazione tecnico-scientifica nel mondo occidentale, mentre il mondo sovietico era fermo.

È stata la fine della giovinezza?

No, per me la fine della giovinezza è stata la morte di Enrico Berlinguer. Nell’89 eravamo già adulti, diciamo.

Certo, la diversità. Però c’è un punto, forse anche paradossale. Il Pci non è mai stato una prefettura di Mosca, è il partito della via italiana, dello strappo, eccetera. Tuttavia proprio l’orgoglio della diversità fa sì che cambia nome per ultimo, dopo il partito comunista ungherese. Cioè, non anticipa.

In Italia mancava la percezione che l’esperienza del Pci potesse essere travolta dalla vergogna, pr­oprio per quei tratti di originalità. Rappresentavamo un comunismo democratico, critico, e per questo non ci sentimmo sopraffatti dalla caduta del Muro.

Il Muro crolla giovedì 9 novembre, quattro giorni dopo Achille Occhetto alla Bolognina annuncia il cambio del nome. Pensò che Occhetto fosse “impazzito”?

Diciamo che le modalità mi colsero di sorpresa. Intendiamoci, che noi dovessimo cambiare e andare verso l’Internazionale socialista, confluire nel socialismo europeo, era tema di cui si discuteva da tempo tra di noi, nel gruppo dirigente ristretto del Pci, e anche l’ipotesi di cambiare nome non era un tabù.

Cosa la convinse a dire che comunque era la strada giusta?

Una testimonianza molto importante fu quella di mio padre. Ricordo che andai a trovarlo, anche per vedere cosa ne pensasse una persona come lui, iscritto al Pci negli anni Trenta, nella clandestinità, che aveva fatto la Resistenza. E rimasi colpito perché mi disse “ha fatto bene”, “ha avuto coraggio”. Pensava ci volesse uno strappo, perché altrimenti i riti e le resistenze interne l’avrebbero stoppato. Mi disse: “Voi dovete cambiare tutto, anche per salvare ciò che di buono abbiamo fatto noi”.

Una dura necessità.

Certo, una necessità e anche una opportunità. Io la sostenni con la preoccupazione che questo non disperdesse la forza del partito e con l’idea dell’approdo socialdemocratico, mentre, come noto, nell’idea di Occhetto c’era di andare oltre le tradizioni.

Cosa che anche lei fa con la nascita del Pd, vent’anni dopo. Si è pentito di aver dato vita al Pd?

Io ho resistito 15 anni in difesa di quel trattino tra centro e sinistra. È stato un errore cedere. Se avessimo mantenuto l’alleanza tra una forza di sinistra e una del centro democratico, sono convinto che il centrosinistra avrebbe avuto un impianto più solido, meno esposto alle scorrerie e alle avventure tipo il renzismo. E resto convinto che avrebbe mantenuto un legame più profondo con la società italiana.

Guardando con distacco questo trentennio: il Pd è nato tardi o è nato male, nel senso che la sua cultura politica, fondata diciamo così su un ottimismo da “terza via”, non coglie e non legge la grande crisi del 2007?

Forse entrambe, sia tardi che male. E la sua crisi è legata all’esaurimento delle basi culturali su cui è nato: l’idea di un partito post-ideologico, post-militante, che si organizza intorno a valori liberaldemocratici mitigati dal solidarismo. Ecco nel suo impianto culturale non c’è la critica al capitalismo, la capacità di vederne le contraddizioni, l’idea che il riformismo è la modernizzazione. Ma la modernizzazione senza qualità sociale e ambientale rivela una visione povera e subalterna.

È una riflessione anche autocritica?

Certamente. Ora però il problema è oggettivo. La sinistra in crisi in tutta Europa. Le nostre società sono divise da una frattura orizzontale. C’è un mondo di sopra che vive come una opportunità di crescita l’innovazione tecnologica, la globalizzazione e l’integrazione europea. Ma c’è una maggioranza di cittadini che vive queste trasformazione come una minaccia; con timore e preoccupazione e chiede una protezione. A questi cittadini la sinistra non è più in grado di parlare.

Lei dice: abbiamo smesso di criticare il capitalismo. Vorrei capire. Questo errore riguarda l’intero impianto di cultura politica del dopo ’89 o solo l’ultima fase? Cioè c’è stata una sbornia liberista che ha contagiato la sinistra sin dal crollo del Muro, oppure lì era giusto ma poi è cambiata la fase.

C’è stata una sbornia liberista, anche se in varie accentuazioni, perché siamo stati meno blairiani di quello che si dice. Parliamoci chiaro: quello che negli anni ’90 si può considerare un’illusione, dopo la crisi del 2007 non ha più avuto giustificazioni perché sono venuto alla luce tutti gli squilibri e le diseguaglianze del turbocapitalismo nel quale viviamo.

Mettiamola così. Il capolavoro politico suo e della sua generazione è aver portato la sinistra al governo del paese in pochi anni, evitando che fosse sepolta sotto le macerie del Muro. L’errore è di non averle dato un’anima. È così?

Mi pare un giudizio drastico. Abbiamo commesso alcuni errori importanti. Sono andato a rivedere gli atti di Firenze del ’98, proprio recentemente: l’idea di fondo è che la globalizzazione avrebbe prodotto ricchezza, che dovevamo rimuovere le barriere. È evidente che pesava il fallimento della statalizzazione dell’economia, e abbiamo sottovalutato il tema dell’eguaglianza. Ora, diciamo le cose come stanno, anche la teoria dell’uguaglianza delle opportunità, che è andata assai di moda, è essa stessa ideologica. Al tempo stesso, abbiamo sottovalutato che il capitalismo non regolato può avere effetti devastanti sull’equilibrio naturale. L’espandersi senza freni di un capitalismo globale ha portato all’accumularsi di diseguaglianze sempre meno contrastate sul piano politico.

Ecco. Queste celebrazioni sono all’insegna del fatto che è tornata la libertà all’Est ed è stata una vittoria dell’Occidente. Mi pare una lettura un po’ semplicistica. L’89 non ha portato un nuovo ordine mondiale.

L’89 fu anche una grande vittoria dell’Occidente e si diffuse l’idea che, da quel momento, si apriva un’epoca in cui la liberal-democrazia e la democrazia di mercato si sarebbero imposti come modelli universali. È ciò che ha teorizzato, Fukuyama nella Fine della storia. Anche se in quel momento ci furono diverse interpretazioni, come quella di Huntington, sullo “scontro di civiltà”.

Pare più azzeccata la seconda.

Coglie che la fine della contrapposizione ideologica non porta a un mondo unificato, ma al riemergere di conflitti e linee di frattura, come è accaduto tra Occidente e Islam, ma anche con l’Asia e nel cuore stesso dell’Europa; nei Balcani c’è stata una guerra civile e di religione che ha fatto 300 mila morti.

Hobsbawm diceva che, in fondo, proprio il comunismo spingeva il capitalismo ad autoriformarsi. È d’accordo?

Sì. Paradossalmente i maggiori benefici del comunismo ci sono stati nelle società non comuniste. Nei paesi comunisti, diciamo, questi benefici non si sono visti. Il comunismo non ha funzionato come modello di società, ma come cultura critica del capitalismo ha funzionato. Le racconto un episodio.

Prego.

Una volta incontrai Giovanni Paolo II. Quando rimanemmo soli iniziò il colloquio in un modo che mi scioccò. Mi disse: “Io ho combattuto tutta la vita il comunismo ma ora che è crollato mi domando, chi difenderà i poveri”. Capisce? La prima grande potenza morale che ha criticato il capitalismo globale è la chiesa. Il Papa capì che non c’era più un argine di fronte alla globalizzazione.

A proposito di Papa. Il dialogo con i i cattolici è sempre stato un tratto caratterizzante dei comunisti. Parlare di chiesa vuol dire molte cose, da Francesco a Ruini. Proviamo a storicizzare.

Quella frattura di cui stiamo parlando attraversa anche il mondo cattolico in modo drammatico: una parte degli ecclesiastici ripiega su un’idea di chiesa come chiesa dell’Occidente; dall’altra parte l’idea di Francesco di rilanciare una idea universalistica, la chiesa dell’accoglienza, del dialogo.

Quando ha compiuto 70 anni ha detto: “Chi vuole restaurare il comunismo è senza cervello, chi non lo rimpiange è senza cuore”. Cosa rimpiange?

Ho citato Putin che parlava dell’Urss… ma si può adattare.

Al Pci?

Certo, dal punto di vista dell’esperienza umana, il Pci è stata una esperienza straordinaria. È questo che rimpiango. Certo non l’Urss. Tutte le volte che andavamo dall’altra parte del Muro la nostra naturale collocazione era dalla parte del dissenso. Io scesi in piazza contro i carri armati sovietici. E non a Roma, ma a Praga. Mi colpì che i militari sovietici che guidavano i carri armati dell’Armata Rossa apparivano smarriti. I manifestanti salivano su questi carri e davano ai soldati dei volantini in russo. Loro non erano attrezzati a questo dialogo, così a un certo punto diedero l’ordine di muoversi per creare paura, è in quel momento che ho visto spolverare da una raffica di colpi la facciata del museo nazionale di Praga.

Nel suo percorso ci sono tutte le contraddizioni del suo mondo: lei è a Praga contro i carri armati, ma la svolta la fa Occhetto; lui la fa a modo suo e lei si impegna a tenere dentro il no; a quel punto è il protagonista dell’apertura forse acritica al mercato. In una carriera lunga è ovvio che ci sono adattamenti al tempo ma, adesso, il suo quid cosa è?

Ora io penso che il grande problema dell’Occidente sia lo sradicamento della sinistra dal suo popolo. E il punto è costruire una sinistra che riprenda una capacità di rappresentanza politica del lavoro. Il Pci non è mai stato il partito dei poveri, ma dei lavoratori, e per ricostruire un rapporto con il lavoro occorre una critica del capitalismo. Il movimento dei giovani sul clima lo è: è una specie di ’68, che nasce contro un modello di sviluppo capitalistico basato sul profitto che entra in urto con l’esigenza di conservazione del pianeta.

Altro paradosso, trent’anni dopo: la Russia, sconfitta nell’89, è tornata centrale, al centro dei giochi in Medio Oriente ad esempio, con un modello non democratico, ma autoritario.

Non credo nella centralità della Russia. Credo che abbia avuto la capacità di inserirsi nei vuoti della politica occidentale, ma più fragile della vera potenza emergente, la Cina. Nell’89 la Russia rappresentava il 3,5 per cento del Pil del mondo e aveva 100 milioni di abitanti. Con la caduta del comunismo ha avuto una caduta del Pil, una crisi sociale drammatica, ed è diventato uno dei paesi al mondo in cui si è abbassata l’aspettativa di vita. Ora è di nuovo il 3,5 del Pil, grazie al fatto che ha il petrolio. La Cina nell’89 rappresentava il 2 per cento, ora il 20,5 del Pil del mondo. Non è la stessa cosa.

Dove è la forza della Russia?

La disponibilità a usare con disinvoltura la forza militare e una leadership nazionalista, assertiva. La forza della Cina è invece la capacità espansiva e innovativa della sua economia. Se convergono siamo spacciati. Per questo l’Occidente dovrebbe avere una politica non di guerra fredda ma di distensione verso entrambi.

L’elemento che li accomuna è che sono due regimi illiberali.

Non si è avverata la profezia di Amartya Sen, che disse: “L’India si svilupperà più rapidamente della Cina perché la democrazia è fattore di sviluppo”. Non è stato così. Le democrazie si sono rivelate più fragili anche perché non in grado di garantire una stabilità e continuità divisione, non solo di governo. Se vai in Cina e parli con la classe dirigente, parlano dei prossimi 15 anni, invece le nostre società sono più fragili, nevrotiche, a corto termine.

Lo dice con un senso di ammirazione.

Ho visitato recentemente la sede di Huawei a Shenzhen. C’era un automa che parlava e sono rimasto impressionato. La persona che era con me le ha chiesto: quale è il senso della vita? L’automa ha risposto: “Perché lo chiedi a me, sono una macchina!”. Capisce? La verità è che la distruzione dei partiti, il dilagare dell’antipolitica e il peso dei media, vecchi e nuovi, ha favorito una destrutturazione delle nostre società e un indebolimento del ruolo delle classi dirigenti. In molti paesi occidentali si determinano leadership casuali e dequalificate, si afferma quella che alcuni intellettuali definiscono “kakistocrazia” ovvero il governo dei peggiori.

Presidente, cosa resta di quella tradizione di cui lei più volte è posto come il custode, sia pur in percorso evolutivo. A me sembra che quella cultura sia nella testa dei singoli ma si è dispersa una tradizione.

Le tradizioni si rinnovano, ma non debbono essere disperse. Sarebbe curioso che in un mondo in cui tornano il nazionalismo, il razzismo e l’etnorazzismo, cioè le peggiori ideologie del passato, scompaiano le culture politiche che hanno dato forza alla democrazia. Le do una notizia: nel mondo c’è un ritorno importante di studi gramsciani, sarebbe giusto che si tornasse a leggere Gramsci anche in Italia.