E se “i migliori” al governo non ci vogliono andare?

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Quando scoppiò Tangentopoli, Giulio Andreotti appariva una mummia senza tempo, vecchissimo per molti, eterno per altri, comunque un reperto di un’era geologica precedente che resisteva al potere dalla preistoria. In quel tempo Andreotti aveva la stessa età del neo presidente del consiglio Mario Draghi. Settantatré anni, per la precisione. Cinque anni meno del neo presidente degli Stati Uniti Joe Biden, sei meno di Sergio Mattarella. Vecchissimo era parso a suo tempo Aldo Moro, esponente storico della vecchia Dc degli albori; ma quando fu ucciso aveva solo sessantadue anni. Potrei farvi tanti altri esempi e paragoni a conferma di questa mutazione anagrafica.

Il mondo sta cambiando vorticosamente ma non solo nel senso che tutto invecchia in fretta; a più di settant’anni si può essere debuttanti, mentre le carriere precoci finiscono precocemente. Cosa è successo nel nostro universo politico? Tre anni fa era approdata in politica un’onda di giovani under40, con i barconi del grillismo; ma anche le leadership e le liste sovraniste erano abbastanza giovanili. La politica ragazza si era già aperta con Matteo Renzi e la sua comitiva di coetanei al governo, dopo aver rottamato gli anziani maggiorenti del Pd. A proposito, se si costituisse l’Associazione Vittime di Renzi avrebbe un numero crescente d’iscritti. È stata toccante la solidarietà espressa dal portavoce della medesima associazione #Staisereno, Enrico Letta, a un nuovo iscritto, Giuseppe Conte, stroncato anch’egli dal virus renziano quando non aveva compiuto mille giorni a Palazzo Chigi.

Ma dopo l’onda giovanile, cominciata con Renzi e finita con Di Maio, c’è stato un contraccolpo o un testacoda. La generazione dei ragazzi approdati in politica era in larga misura così impreparata e inadeguata da spianare la strada a un ritorno alla posata serietà dei seniores. Il dramma del nostro Paese è che la generazione di trenta-quarantenni che avrebbe i titoli e le qualità per diventare la nuova classe dirigente, è in larga parte emigrata all’estero; e chi resiste in Italia non vuol sapere di impegno politico, è barricata nelle professioni economico-finanziarie, ingegneristico-tecnologiche e biomediche e non vuole uscire dalla sfera specialistica per impegnarsi con ruoli pubblici. Al più, agisce nel campo della comunicazione social, il web, la pubblicità, ma si tiene alla larga dalla politica. Restano così a sciamare per le vie della politica gli spiantati, gli homeless, insomma gli scappati di casa, almeno fino alle prossime votazioni; più cassette ormai avariate di sardine ai bordi della piazza. Così il governo, per ritrovare compostezza e affidabilità, riparte dai coetanei dell’ultimo Andreotti di potere, perché torna ad affidarsi al curriculum. Anche se poi è costretto a formare un governo-mulo, ibridando asini e cavalli.

Un altro fenomeno parallelo è stato la composizione territoriale dei governi. La Seconda repubblica fu spostata decisamente sull’asse padano Bologna-Milano (Berlusconi, Bossi, Fini, Prodi, Casini, ecc.) più qualche romano; i leader e i ministri meridionali furono decimati, dopo che erano stati egemoni o almeno largamente presenti nei ministeri della prima repubblica. Poi l’onda anomala del ’18, l’infornata di grillini, venuti largamente dal sud e il governo giallorosso, avevano spostato il baricentro del governo decisamente a sud, con una schiacciante rappresentanza meridionale. Ora il nuovo governo Draghi ha riportato l’asse al nord.

E la prima battaglia sociale che si troverà ad affrontare il governo Draghi riguarderà il popolo del reddito di cittadinanza, più il vergognoso reparto di cavalleria, i circa tremila navigator, ancora intonsi perché mai adoperati, anche se stipendiati per svariati mesi. Un popolo complessivo di beneficiati che nello scorso autunno era di quasi tre milioni di persone (circa 1 milione e trecentomila nuclei famigliari), con una prevalenza di meridionali, soprattutto del versante campano.

Anche per il sud vale il discorso di prima: i meridionali più dinamici sono emigrati, hanno lasciato il sud e le loro famiglie (salvo ritorni con lo smart working) e non hanno motivazione né intenzione di impegnarsi in politica; di conseguenza il ceto politico del sud resta impoverito. Tralascio la questione femminile, con la sinistra che strepita per l’assenza delle donne al governo a causa della sinistra stessa che le ha lasciate a casa.

Insomma se arrivano i Draghi o i dragotecnici non è (solo) per misteriosi complotti orditi chissà dove; ma è il frutto di questa vistosa disfatta della politica, questo evidente degrado del suo ceto e dei suoi criteri di reclutamento. Morale della favola: gli invocati “migliori” in politica non sono ricercati dai partiti ma a loro volta non hanno nessuna voglia di impegnarsi. Perfino Platone 24 secoli fa si era posto il problema e lo aveva risolto auspicando che i migliori fossero “costretti” alla politica.

La politica è uscita dall’orizzonte di molti giovani promettenti o dei competenti non solo per lo spettacolo avvilente della stessa politica e per l’assenza di scouting e reclutamento selettivo da parte dei movimenti e partiti. Ma perché i giovani stessi sono stati formati a vedere il singolo e il globale, ovvero i temi che riguardano strettamente la propria vita individuale o l’intero pianeta: mancano i gradini intermedi, i territori, le comunità, i corpi sociali in cui si radica e agisce la politica. E i loro studi sono finalizzati a eccellere nei rispettivi campi ma sono largamente alieni dal contesto e dai temi pubblici: niente passioni ideali e civili, niente giornali da leggere, niente ambiti territoriali o progetti in comune. Anche per questo, i governi dei migliori servono solo per squalificare i peggiori in carica; ma poi i migliori, come i Tartari e come Godot, non arrivano mai.

Marcello Veneziani