FRANCO CORTESE: Eutanasia d’altri tempi

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Vita e morte in Gallura con la “Femina agabbadòra”

SARDEGNA-GALLURA-LURAS – Un tema di scottante attualità, quello di poter avere una morte dignitosa, che divide gli italiani, ma che soprattutto – la cosa è ancor più grave – fa decidere, con il non varo di un provvedimento ad hoc, di volta in volta “la legge” in generale, singoli giudici o terze persone (medici), escludendo paradossalmente l’interessato dalla scelta tra continuare quella vita o porre fine alle sofferenze – personali ed indotte ai familiari – costringendolo qualche volta ad andare all’estero per poter affermare la propria volontà.

Questo “non decidere” in un modo o nell’altro, è, a nostro avviso, una vergogna per tutta la classe politica italiana. In alcuni casi come questo (ma ve ne sono altri) sarebbe doveroso stabilire regole e non lasciare nel vago e nell’astratto, caso per caso, a estranei, scelte così importanti e fondamentali.
Non dobbiamo pensare però che il “popolo italiano” sia fesso: da sempre e in tanti momenti diversi ha semplicemente saputo arrangiarsi e adattarsi alla situazione. L’esempio che riportiamo oggi – cose vere e documentate italiane – spaventa e dovrebbe indurre i politici, finalmente, a decidere in un modo o nell’altro.

Ci soffermiamo e riflettiamo oggi, sulla morte – non “dolce” purtroppo! – provocata dalla “femina agabbadòra”, ovvero la donna che con un martello detto “mazzolu” – un oggetto inquietante lungo circa 40 cm e largo 20 tratto per lo più da un ramo di ulivo molto stagionato – provocava il decesso del paziente giunto allo stremo fisico per le sofferenze.  Gli ultimi casi noti registrati in Sardegna risalgono al 1929, a Luras, ed al 1952 ad Orgosolo

A Luras, in Gallura, non lontano da Tempio Pausania, c’è un museo privato (creato grazie agli sforzi ed alla passione per le tradizioni di Pier Giacomo Pala) aperto da almeno 20 anni, su tre piani, che ospita oltre 7000 reperti inerenti le condizioni di vita dei contadini: tra questi alcuni di questi martelli di cui uno ritrovato in una cascina locale con pochi frammenti di orbace nero, tessuto grossolano di lana di pecora che vestivano le “agabbadòre” quando erano in servizio. Sul sito posto in fondo a questo articolo potrete approfondire, se volete, l’argomento anche richiedendo documenti cartacei.

Il termine “agabbadòra” deriva dal sardo “acabai”, a sua volta figlio dello spagnolo “acabar”, con chiaro  riferimento alla testa, al capo: “cabu”; il termine completo ha un doppio significato, di “dare sul capo” e di “trarre a capo, portare a termine”.

Si narra – per tradizione popolare, di bocca in bocca – che la persona in questione, generalmente una levatrice (operatrice quindi di vita e di morte), si spostava con qualsiasi condizione climatica, a cavallo, vestita con un mantello nero di orbace e con i suoi due attrezzi: il “mazzolu” e “lu jualeddhu” (piccolo giogo in legno da porre sotto il cuscino ed il capo del malato). Quando giungeva in loco chiamata per il suo “servizio” salutava in modo cristiano con “Deu ci sia” (Dio sia qui, sia con noi), quindi invitava i familiari ad uscire dalla stanza e colpiva la fronte del degente con colpi fermi e decisi.

Due parole per chi si scandalizza di questo modo d’agire. La sofferenza occorre averla vissuta, non solo averne sentito parlare, direttamente o in famiglia, per comprendere l’accumulare giorno dopo giorno dolore, sofferenza e lavoro, stress e dedizione, lacrime e conoscenza reale delle condizioni in cui versa il soggetto. Troppo spesso infatti si discute “sulla sua pelle” e su quella dei familiari, ma poi ci si allontana restandone al di fuori…

Nel caso specifico sardo occorre poi considerare che gli stazzi, gli insediamenti rurali tipici, le cascine contadine, erano posti lontani dai centri abitati, ed in essi si conduceva una vita dura di lavoro non sempre ripagata correttamente dalla natura e dai proprietari terrieri; l’attenzione e l’impegno dovevano quindi essere “massimi” ed il medico non era proprio a due passi. Solo riflettendo con attenzione su queste condizioni si potrà comprendere e, forse, accettare questo agire, orribile sicuramente, di ieri… e di oggi.

Lugubri tradizioni che attraggono e sconvolgono, certo, ma occorre sempre anche analizzare il risvolto della medaglia: cosa e come fare quando ci si trova in condizioni estreme con un soggetto malato gravemente e in condizioni non più sopportabili dai familiari.

La morte fa parte della vita; pietà o crudeltà, indifferenza o comprensione anche!

Fonti: Internet, alcuni opuscoli, impressioni di visita al Museo.
La foto originale raffigurante il Museo con in basso a sinistra il letto ed a destra il “mazzolu” è di una cartolina di Pier Giacomo Pala, ma è stata elaborata al computer dallo scrivente per renderla più visibile e chiara.
https://www.galluras.it/

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