Gabriele Galateri di Genola Presidente di Assicurazioni Generali

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Tratto da “ Banchieri “ di Beppe Ghisolfi – ARAGNO Editore

Sono nato, secondo di quattro figli nel gennaio 1947. La mia è una famiglia piemontese di lunga tradizione militare e diplomatica. Mio padre, Angelo Galateri, era Ufficiale di Stato Maggiore nell’arma di artiglieria da campagna e aveva combattuto durante la Seconda Guerra Mondiale, dove venne decorato con la medaglia d’argento al valore militare. Scrivo subito questo perché la carriera militare di mio padre ha molto influito sulla vita mia e dei miei fratelli. I diversi incarichi rivestiti hanno comportato numerose trasferte sul territorio nazionale e internazionale, prima a Roma allo Stato Maggiore, poi a Parigi per la NATO e ancora a Bolzano al Comando del IV Corpo d’Armata, quindi a Vittorio Veneto per il Comando del V Corpo d’Armata e infine a Verona al Comando delle Forze Alle- ate Sud Europa FTASE. I traslochi legati a questi e altri spostamenti non sono stati pochi: ne ricordo almeno una ventina. I conseguenti cambiamenti di contesti, scuole, amicizie – anche nel bel mezzo dell’anno scolastico – hanno però contribuito a creare quell’adattabilità e apertura al mondo internazionale che mi è tornata utile nella mia vita professionale.Terminato il liceo classico a Roma, ho trascorso gli anni dell’università prima a Torino alla Facoltà di Giu- risprudenza e poi a Roma alla Sapienza, dove conobbi Cesare Cosciani, luminare della Scienza delle Finanze che fu professore del mio esame di laurea superato con 110 e lode. Cosciani, fu tra i primi ad aver influenzato il mio percorso professionale. Era un uomo molto seve- ro ed ero rimasto stupito, dato che mi stavo orientando per la carriera diplomatica, dal fatto che, terminata la sessione di laurea, mi avesse chiesto se fossi interessato ad andare a lavorare con lui come assistente incaricato alla sua cattedra. All’epoca facevano parte del suo team personaggi del calibro di Vincenzo Visco e Domenico Da Empoli. Accettai con entusiasmo e molta curiosità la sua proposta, andandomi ad occupare da subito di studi finanziari e fiscali, oltre a preparare gli studenti per gli esami del suo corso. Dopo qualche tempo mi indicò che, come suo assistente era “obbligatorio” fare qualche anno all’estero presso una università straniera. Potevo scegliere io se con orientamento scientifico-accademico oppure più rivolto a svolgere poi un’attività di business operativa. Scelsi il secondo e feci quindi richiesta a diverse università europee e americane e a diversi Enti, prevalentemente Fondazioni e Istituti bancari, per avere una borsa di studio, non volendo gravare sulla mia famiglia per una spesa che si preannunciava consistente. Con mia sorpresa, grazie al risultato di laurea ottenuto, mi sono subito state offerte diverse possibilità sia come università che come finanziamenti per cui ho potuto scegliere la Columbia Business School a New York, che mi interessava particolarmente non solo perché una delle più quotate università americane, ma anche perché situata a New York, che allora era il più importante centro mondiale per la finanza. L’esperienza americana mi ha insegnato moltissimo, non soltanto sul piano dei contenuti, che peraltro erano fortemente innovativi rispetto al mondo finanziario europeo come realizzai quando tornai in Europa, ma anche e soprattutto per il metodo dell’insegnamento basato molto sulla discussione in classe tra studenti e professori e sulla quantità di letture assai diverse consigliate su uno stesso argomento; il risultato di questo metodo era che, quasi senza accorgersene, si acquisiva una profonda capacità di analisi e di critica di qualunque tema proposto. Era inoltre obbligatorio predisporre tesi concrete su specifici casi aziendali ed era richiesta anche una presenza temporanea effettiva nell’azienda prescelta. Infine, Columbia e la città di New York offrivano un’incredibile opportunità di contatti e conoscenze, sia nel campus universitario sia nella vita al di fuori, che hanno ulteriormente arricchito l’esperienza americana che tuttora conservo. Terminato il Master in Business ho presentato domanda a diverse società industriali e banche americane con risposte positive e progetti interessanti presso la Banca Mondiale, alla City Bank e altri importanti enti finanziari; la volontà di impegnarmi di nuovo e di più per il mio paese, oltre ai forti legami famigliari e culturali con l’Italia, mi hanno invece spinto a tornare in patria, dove sono stato assunto al Banco di Roma diretto all’epoca per la parte internazionale, dall’Avv. Barone. Gli anni Settanta hanno rappresentato un periodo, molto interessante perché la Banca stava facendo uno sforzo internazionale rilevante con aperture e collaborazioni in Europa (per esempio accordo Europartners), in America, in Africa e aveva costituito un gruppo di specialisti di finanza internazionale per organizzare i primi prestiti sindacati sulla piazza di Londra a cui né il Governo né le aziende italiane avevano fino ad allora saputo o potuto fare ricorso. Risale a quell’epoca l’organizzazione del primo prestito da 1 miliardo di dollari per la Repubblica Italiana. Ricordo ancora con interesse che la Banca, apprezzando le conoscenze che avevo appreso a NY, mi mandava nelle varie filiali italiane per spiegare i primi elementi di ana- lisi finanziaria dei bilanci delle società italiane che oggi sono strumenti ancora molto usati per quanto ormai considerati elementari (come i rapporti patrimoniali di debito e capitale e i margini operativi) ma che a quel tempo erano considerati un’interessante novità (ricordo che in quell’epoca e parlo del 1973/74 non c’era l’obbligo per le società quotate in Italia di redigere un bilancio consolidato: il ché è tutto dire!!!) Mentre mi affascinava sempre più quel mondo di finanziamenti e progetti industriali cominciai però a sentire il bisogno di conoscere più da vicino la realtà delle società manifatturiere. Quindi colsi al volo la proposta di un amico che avevo conosciuto alla Columbia University e che mi propose di sostituirlo, essendo lui destinato ad altri importanti incarichi, nella funzione di Direttore Finanziario del Gruppo Saint Gobain in Italia a Milano. Non nascondo che lasciare Roma con il mio ufficio all’ultimo piano dell’imponente palazzo del Banco di Roma in via del Corso, per trasferirmi in un edificio alquanto spoglio a Lorenteggio a Milano, mi ha creato qualche rimpianto nei primi tempi, anche perché, appena arrivato nel mio nuovo incarico, scoppiò la prima crisi petrolifera con dei violenti impatti sull’attività delle banche, che ridussero rapidamente gli affidamenti al set- tore industriale, per cui mi sono trovato a dover far fronte alla riduzione delle linee di credito della mia nuova azienda, dalle prime ore della mia nuova responsabilità. Lì ho avuto come Presidente Xavier de Villepin, padre dell’ex Primo Ministro francese Dominique de Villepin, personaggio di grande capacità professionale ma anche di enorme simpatia da cui imparai che si può essere al tempo stesso bravi imprenditori ma anche sereni osservatori della realtà circostante. Un giorno venne in visita a Milano il Presidente del Gruppo Roger Martin, che dopo avermi incontrato, mi chiese se volevo andare a lavorare a Parigi alla Direzione Finanziaria della Saint Gobain. Mi pose solo la condizione di trovare il mio successore a Milano. È stato così che venne assunto un brillante banchiere, Paolo Vampa, ex Manufacturers Hanover Ltd. (banca oggi assorbita in un grande gruppo bancario internazionale) e sono partito per Parigi. Nel frattempo però, ero entrato in contatto con un cacciatore di teste che dopo qualche mese tornò all’attacco proponendomi di incontrare a Torino, Cesare Romiti, allora AD della Fiat e Paolo Mattioli, allora CFO della stessa. Fu così che dopo un anno passato a Parigi lavorando a fianco di dirigenti di altissima qualità co- me Jean-Paul Beffa (futuro presidente della stessa Saint Gobain) e Francis Mer (futuro Ministro delle Finanze francese), decisi di incontrare Romiti e Mattioli che mi proposero di affidarmi la responsabilità dell’area Nord/ Centro e Sud America per la finanza del gruppo FIAT. A dire il vero, l’incarico mi sembrò riduttivo rispetto a quello che avevo, ma il fatto di lavorare per un gruppo italiano e con dirigenti di quel calibro mi interessò mol- to, per cui mi trasferii a Torino. Arrivando nella mia nuova città da Parigi, ricordo che ebbi qualche dubbio di aver fatto la scelta giusta anche perché nello stesso momento maturò l’uscita di Carlo De Benedetti dalla FIAT, di cui era CoAD e temetti di trovarmi nel mezzo di forti incertezze strategiche del gruppo. Invece passai alla FIAT e a Torino, 25 anni di esperienze indimenticabili sul piano professionale, umano e personale. Sul piano personale, oltre ad incontrare mia moglie, Evelina Christillin, che all’epoca lavorava all’Ufficio Stampa FIAT, ritrovai nel mondo torinese e nelle sue abitudini, le radici della mia famiglia e una rete di conoscenze piacevoli e importanti, mentre sul piano professionale e umano, fu straordinario il contatto con il mondo Agnelli, dall’Avvocato, con cui iniziai presto frequenti incontri pomeridiani domenicali nella villa Fre- scot in cui si spaziava da temi aziendali a quelli familiari a quelli di politica mondiale, a Umberto Agnelli, con cui per 15 dei 25 anni ho condiviso la mia vita professionale e umana per preparare con l’IFIL e poi l’IFI le strategie e le azioni per valorizzare il gruppo nei campi di attività diversi dall’auto. Ricordo anche i vari membri della famiglia: Marella Agnelli, Allegra Agnelli, i Rattazzi, Bran- dolini, Nasi, Teodorani così diversi gli uni dagli altri, ma anche così uniti nel sentimento di appartenenza a una famiglia, che aveva nella consanguineità un suo legame fortissimo e che sentiva la responsabilità verso il paese e la società superiori a qualunque interesse personale. Così, dopo aver girato il mondo come capo finanza dell’area Americhe, poi come CFO del Gruppo, poi co- me AD dell’IFIL e quindi dell’IFI e aver contribuito alla crescita dello stesso, attraverso momenti gloriosi e altri molto difficili, nel 2002 lasciai la FIAT, di cui nel frattempo ero diventato AD. In quel momento si chiudeva lo scontro tra Mediobanca e le banche sue principali azio- niste sul terreno delle Generali e mi venne proposto di assumere la carica di Presidente di Mediobanca.
Ricordo che quando informai Umberto Agnelli della proposta, mi disse solo “Ma non è un po’ giovane per assumere quel ruolo?”. Al momento non capii l’osservazione ma successivamente mi resi conto che la posizione di Presidente richiede un equilibrio, una saggezza e un distacco dalle ambizioni operative che spesso solo l’età riesce a dare. All’epoca avevo 56 anni! Gli anni di Mediobanca (2003-2008) sono stati anch’essi molto interessanti. Grazie ad un management di altissima professionalità e pari senso etico, la banca cominciava a trasformarsi da holding a gruppo bancario specializzato. Io stesso mi resi conto di quante relazioni in Italia e all’estero ero riuscito a costruirmi, vivendo vicino a Giovanni e Umberto Agnelli negli innumerevoli incontri avuti e quanto questi contatti risultassero utili per l’attività di una dinamica banca d’affari. Il mondo finanziario italiano cominciava ad aprirsi a una maggiore concorrenza e molte aziende avevano bisogno di assistenza e di sostegno finanziario per trovare la strada del loro sviluppo nazionale e internazionale. Anche la gestione del Consiglio di Amministrazione della Banca, subì un’evoluzione profonda, passando da una conduzione molto dirigistica (così mi venne raccontato) a una sede di dibattito, talvolta molto acceso, ma comunque sempre importante per il futuro del sistema Italia. Verso la metà del mio secondo mandato in Mediobanca, si presentò la vicenda Telecom, allora presieduta da Marco Tronchetti Provera che dopo alcune complesse vicende che interessarono Murdoch e il Governo, decise di vendere la sua quota di partecipazione in Telecom. All’orizzonte si profilò l’ipotesi che l’americana AT&T e Carlos SLIM, proprietario delle telecomunicazioni in Messico, potessero essere interessati all’acquisizione. Per evitare questo sviluppo che avrebbe portato la società fuori dal perimetro europeo con evidenti problemi strategici oltre che finanziari, chiesi al mio ex compagno di master alla Columbia University, Cesar Alierta che era il presidente di Telefonica, la principale compagnia telefonica in Spagna, se era interessato a una possibile combinazione azionaria con Telecom. Avendomi dato un’indicazione di massima positiva, con i miei colleghi di Mediobanca organizzammo un accordo con Banca Intesa, Generali, Benetton e Mediobanca stessa per costituire una società che assumesse le quote messe in vendita da Tronchetti Provera. Realizzata l’operazione, essendosi prodotta nel contempo una fusione tra UniCredit e Capitalia che portò il Presidente uscente di Capitalia alla Presidenza di Mediobanca, mi venne proposto di assumere la Presidenza di Telecom anche a garanzia del funzionamento dell’accordo tra i nuovi azionisti di Telecom riuniti in una nuova società chiamata Telco. Da lì, iniziò il mio periodo di Presidente Telecom che fu molto importante perché mi permise di vedere da vicino e capire la fondamentale rilevanza della tecnologia e in particolare di quella digitale nello sviluppo delle società moderne in maniera direi trasversale a tutti i settori. Al termine del mandato triennale l’insoddisfazione di alcuni Azionisti nei confronti della performance economica della società, portò a un tentativo di modificare l’assetto di governance per migliorare la gestione, ma non si riuscì a realizzarlo in maniera chiara ed efficace. Di conseguenza mi ritrovai a valutare l’opportunità di ritornare a lavorare nell’ambito di un’importante realtà finanziaria internazionale. Mentre riflettevo su tale scelta, il CdA di Generali, che era al centro di accese polemiche tra alcuni dei suoi componenti e il management, mi chiese la disponibilità ad assumere la carica di Presidente della società, con il compito di accompagnare le strategie di sviluppo della Compagnia, ripristinando corretti rapporti di governance tra Azionisti e tra Azionisti e management. L’impegno nel mondo assicurativo che è tuttora in corso rappresenta per me una sintesi affascinante delle esperienze che fino ad allora, ho avuto la fortuna di fare. Dovrei aggiungere che, oltre agli incarichi in Medio- banca, e poi in Telecom e Generali, ho avuto anche due altri incarichi particolarmente interessanti. Il primo riguarda l’Istituto Italiano di Tecnologia che fu fondato dal Governo con Giulio Tremonti e Letizia Moratti, rispettivamente Ministri della Finanza e dell’Istruzione, per dare all’Italia una realtà di eccellenza nel campo della ricerca scientifica e del trasferimento tecnologico sulla falsariga dei migliori istituti internazionali come l’MIT di Boston o il Fraunhofer o ancora il Caltech californiano. Sotto la guida del bravissimo Direttore Scientifico Prof. Roberto Cingolani, l’istituto di cui ho avuto la Presidenza prima del CdA e poi del Comitato Esecutivo fino ad oggi, è cresciuto dal nulla ad avere 1.600 collaboratori, di cui l’85% scienziati, il 45% dei quali proveniente da più di 50 paesi e il 16%, essendo italiani, rientrati in Italia da posizioni di grande prestigio scientifico all’estero. Questo Istituto, con le sue 8.000 pubblicazioni dalla nascita, 400 brevetti o domande di brevetto, 200 invenzioni, 16 start-up e 16 vincitori di ERC (European Research Council), in pochi anni ha raggiunto risultati straordinari principalmente nei campi della robotica, delle nanotecnologie, delle neuroscienze e dei materiali intelligenti. È una storia bellissima, forse mai ancora abbastanza raccontata, e per me rappresenta uno degli esempi più chiari di come in Italia, dando spazio alla meritocrazia, con una visione chiara degli obiettivi e con un sostegno finanziario adeguato, si possano creare realtà competitive con i migliori concorrenti internazionali. Del resto, quello che ho sempre constatato durante la mia carriera è che professionalità, onestà, impegno e visione, nelle vicende di business sono la regola. Certo, il nostro sistema ha sofferto, in parte ne soffre ancora di episodi di favoritismi, fragilità, miopia e corruzione ma i segnali sono quelli di una costante evoluzione in meglio. Di questo ho avuto conferma anche da un osservatorio privilegiato, e cioè l’altra esperienza importante a cui facevo riferimento: gli ultimi sei anni come Presidente del Comitato di Governance delle Società quotate. Se pensiamo che quando entrai alla Direzione Finanziaria della FIAT nel 1977, come dicevo prima, non erano ancora obbligatori i bilanci consolidati delle aziende, e che quando iniziai la Presidenza del Comitato di Governance nel 2011 fu difficile condividere una seria proposta nel Comitato stesso circa una maggiore effettività dei criteri di indipendenza degli Amministratori, ebbene, essendo adesso il contenuto del codice di Autodisciplina delle società quotate dopo le ultime modifiche e il suo livello di applicazione best in class come confortato anche dal giudizio dei colleghi Presidenti di Comitato omologhi in Francia, UK, Olanda e Germania, posso dire che la strada intrapresa dal nostro Paese è stata lunga, sarà ancora molto lunga, ma va certamente nella direzione giusta, e come italiani, anche alla luce del progresso del settore bancario e industriale negli ultimi tempi, non abbiamo nessun motivo di sentirci inferiori al resto dei nostri partner europei. Concludo riprendendo il tema di Generali e della mia attuale esperienza al vertice della stessa.
La competenza del suo vertice manageriale, la chiarezza della sua impostazione strategica, gli obiettivi di efficienza, attenzione al cliente, innovazione e focalizzazione in termini di prodotto e mercato, uniti alla forte motivazione del suo personale che affonda le radici nella sua storia bicentenaria, sono componenti affascinanti di una storia al cui sviluppo sono orgoglioso di partecipare.