Giovanni Bazoli, Presidente Emerito di Intesa Sanpaolo

0
383

tratto da “ Banchieri “ di Beppe Ghisolfi  – Aragno Editore

Non si è mai trasferito a Milano, Giovanni Bazoli, non ha mai lasciato Brescia. A lungo è salito e sceso dai treni della stazione Centrale come un pendolare qualsiasi. Oggi, da Presidente Emerito, dopo più di trent’anni spesi a far diventare Intesa Sanpaolo l’istituto di credito più importante della nazione – e insieme a “dare un contributo decisivo al rinnovamento del sistema bancario del Pae­se”, come ebbe a riconoscergli Carlo Azeglio Ciampi –, un’auto lo riporta ogni sera fra le colline della sua città. Davanti alla finestra del suo studio s’intreccia una distesa di rose gialle. Una spina di quei fiori, nell’inverno del 1933, gli sottrasse la madre, Beatrice Folonari, morta d’infezione per un graffio al viso, quando Giovanni aveva solo tre mesi. Insieme al fratello Luigi, fu cresciuto dal padre Stefano, avvocato per tradizione familiare, in una città la cui radicata cultura cattolica dalla forte impronta
didattico-pedagogica avrebbe espresso negli anni Sessanta, un papa, Paolo VI, un pontefice colto, intellettuale, dal carattere schivo e austero. La famiglia Montini, di ottima borghesia cittadina, ebbe estrema familiarità con i Bazoli. Come il nonno e il padre anche Giovanni divenne avvocato. Per molti anni ha insegnato diritto amministrativo all’Università Cattolica di Milano, coniugando
docenza, professione e i primi incarichi nel Consiglio di Amministrazione della Banca San Paolo di Brescia, dove avrebbe raggiunto la carica di Vice Presidente. Giovanni Bazoli viene tuttora chiamato “Il Professore” per il suo lungo esercizio didattico e per l’autorevolezza della sua cultura umanistico-religiosa – è infatti appassionato lettore di Manzoni ed esegeta della Bibbia –, oltre
che finanziaria. Caso raro in Italia, dove gli ambiti delle discipline economiche e delle humanae litterae sono da sempre ritenuti separati, inconciliabili: una delle tante arretratezze culturali del Pae­se. “Non si preoccupi, io sono laureato in lettere” lo rassicurò Ciampi, allora Governatore della Banca d’Italia, quando nell’agosto del 1982 Bazoli si riservò ventiquattro ore di tempo per decidere se accettare l’incarico di Presidente del Nuovo Banco Ambrosiano, in rappresentanza delle quattro banche private (Popolare di Milano, San Paolo di Brescia, Credito Romagnolo e Credito Emiliano) che avrebbero rilevato il 50% del Banco Ambrosiano di Calvi. Glielo aveva proposto Beniamino Andreatta, allora Ministro del Tesoro, “uomo di straordinaria probità e intelligenza” – ricorda Bazoli – un democristiano vicino ad Aldo Moro, che non esitò a denunciare in Parlamento le responsabilità nel crac di Calvi, di Paul Marcinkus e dello IOR, la banca vaticana. Bazoli accettò il grande rischio di guidare l’istituto che nasceva sulle macerie del Banco Ambrosiano (e da quel momento la carriera forense per cui si era preparato sarebbe stata sacrificata). Roberto Calvi era stato trovato impiccato sotto il ponte dei Frati Neri a Londra e quell’improbabile suicidio diventò un eclatante caso, non solo nazionale, che coinvolgeva politica, finanza, mafia e malavita. “Aveva importanti protezioni romane”, sussurra Bazoli, salvo spostare subito la memoria sul dato progettuale che avrebbe potuto farsi strada in quella inquietante contingenza. Nel Pae­se stava maturando la necessità di trasformare il sistema bancario da pubblicogiovanni bazoli in privato e proprio quella circostanza permise a una cordata di banchieri di introdurre una novità che avrebbe fatto da apripista. Alcune roccaforti del potere finanziario milanese non videro con favore la nascita della nuova banca che si accollava l’eredità del fallito Banco Ambrosiano, perché avrebbero brindato volentieri all’eliminazione di un concorrente diretto. Giovanni Bazoli puntò con successo al rilancio dell’azienda, evitando frazionamenti e licenziamenti. Nel rispetto dell’alterità, la mediazione è per Bazoli prassi privilegiata. Di conseguenza, come ebbe a dichiarare nel suo discorso di insediamento, “l’autonomia e la completa armonia all’interno dell’istituto fra le varie aziende che hanno contribuito a costituirlo” fu uno dei principali obiettivi del Nuovo Banco Ambrosiano. Bazoli ha sempre preferito percorrere la strada del confronto piuttosto che quella degli scontri frontali, intessendo negli anni solidi rapporti di collaborazione anche con uomini di potere, non solo finanziario: una fitta rete di relazioni nazionali e internazionali – dagli industriali agli intellettuali, dai politici ai giornalisti, dai finanzieri ai rappresentanti del clero – che qualche osservatore ha guardato anche con occhio critico. Ma nelle relazioni umane Bazoli continua a credere con profonda convinzione, ritenendole un valore fondante in ogni ambito della vita sociale, se utile al conseguimento di obiettivi degni e meritevoli. Anche i rapporti con gli avversari sono improntati al rispetto e alla volontà di “capire le ragioni dell’altro”, ci tiene a ribadire, trovando sconveniente, perché estrema, la parola nemico. I primi anni di vita del Nuovo Banco furono estremamente difficili. Bazoli, coadiuvato da un Direttore Generale di grande capacità ed efficienza, Pierdomenico Gallo, concentrò i suoi sforzi sul riordino e il consolidamento degli assetti finanziari dell’istituto di credito, ma si adoperò affinché anche i vecchi Soci dell’Ambrosiano non fossero estromessi dalla compagine azionaria, nella convinzione di ottenere in tal modo, oltre al rafforzamento del capitale, un risultato di valore etico e civile. Questo approccio è stato sottolineato da Carlo Bellavite Pellegrini in Una storia italiana – uno studio denso di documenti e informazioni, scritto con una tensione narrativa inconsueta nei libri di economia – pubblicato da “Il Mulino” nel 2013, in cui si ricostruiscono le vicende, talvolta avventurose, che nel tempo hanno trasformato il Banco Ambrosiano in Intesa Sanpaolo. Del resto, secondo il Cardinale Federigo Borromeo, ieratico personaggio dei Promessi Sposi, per rimanere fra le pagine di un romanzo molto amato da Giovanni Bazoli (insieme a Guerra e pace e Anna Karenina, vertici letterari a suo parere mai più raggiunti), nella concezione cristiana il potere è da intendersi solo come servizio alla compagine sociale più estesa, al “prossimo” si direbbe in termini biblici, dei cui testi Giovanni Bazoli si è fatto interprete in alcune occasioni. In quell’impegnativo frangente Bazoli dovette fronteggiare anche la crisi finanziaria della Rizzoli, pesantemente indebitata con il Gruppo del Nuovo Banco Ambrosiano, e il cui dissesto avrebbe probabilmente messo a rischio anche il futuro dell’istituto di credito. Durante il periodo di amministrazione controllata della Rizzoli, Bazoli si mise pertanto alla ricerca disperata di un nuovo Socio che potesse subentrare, al fine di consolidare i debiti e scongiurare l’incombente rischio di fallimento della casa editrice. Tra l’altro, nella competizione con la “Repubblica” il quotidiano di Via Solferino usciva ammaccato anche in termini di vendite, a causa dello scandalo della P2, loggia massonica che aveva interferito sia nei conti sia nella linea editoriale. Nel frattempo Il Professore si era insediato a Milano, dove aveva stretto rapporti con la Curia cittadina, retta allora dal Cardinal Martini (che col tempo sarebbe diventato un suo prezioso interlocutore), nonché con l’avvocato Gianni Agnelli, conosciuto nel settembre del 1983 a Cernobbio, durante l’annuale convegno dello studio Ambrosetti. Fu Cesare Romiti a presentarglielo e l’avvocato Agnelli fu subito incuriosito da un uomo che risultava per tanti aspetti atipico e “nuovo” rispetto all’ambiente. Con riguardo alle banche cattoliche, Agnelli era interessato a capire come potessero coniugarsi le finalità aziendali di un istituto bancario con il perseguimento di obiettivi extraeconomici. Ben presto Bazoli rientrò tra i destinatari delle leggendarie telefonate di primo mattino che Agnelli riservava a una categoria ristretta di persone. Finché un giorno Bazoli, con mossa improvvisa – non di rado ricorrente nelle sue modalità di gestione delle operazioni –, chiese ad Agnelli di intervenire nell’affaire Rizzoli e l’Avvocato, superata qualche perplessità, dette il suo placet all’inizio di una trattativa. Dopo l’arresto di Bruno Tassan Din e Angelo Rizzoli, sull’azienda moribonda si erano concentrati gli interessi di molti: obiettivo privilegiato “Il Corriere della Sera”. Si era fatta avanti una cordata di professionisti, poi un gruppo di editori (Rusconi, Mondadori, Caracciolo) e infine la politica con Bettino Craxi che, dopo avere dato incarico di sondare lo stato delle cose a Nerio Nesi, Presidente della Banca Nazionale del Lavoro, vicina ai socialisti, intendeva seguire in prima persona il destino del maggiore quotidiano nazionale. Avendo avuto notizia di una nuova trattativa sul punto di essere avviata, Craxi convocò Bazoli nel suo studio in Piazza del Duomo 19 e gli chiese di svelare l’identità del possibile Socio. Il Professore, pur nella consapevolezza che  all’indomani avrebbe avuto come un avversario anche il Presidente del Consiglio dei Ministri, gli oppose un motivato ma fermo rifiuto (Agnelli gli aveva detto che la trattativa si sarebbe immediatamente interrotta se si fossero registrate interferenze politiche). “Qui le nostre strade si dividono per sempre”, replicò Craxi. Non si sarebbero mai più rivisti. La Rizzoli fu salvata con l’intervento di una società posseduta al 50% da Gemina, una finanziaria controllata da Fiat e partecipata da alcune delle maggiori industrie
italiane. Conclusa la vendita, dalle pagine del “suo” giornale, Eugenio Scalfari volle rimarcare che nella galassia dei nuovi soci della Rizzoli compariva anche una società della Curia di Brescia, lasciando intendere che la linea laica del giornale avrebbe potuto risultare pregiudicata. Bazoli replicò – e questa sarebbe stata una delle ricorrenti battaglie ideologico-culturali da lui condotte – rivendicando la totale autonomia degli operatori laici di area cattolica nel compiere sotto la propria personale responsabilità scelte nell’ordine politico, civile, economico. Altre battaglie però lo aspettavano in banca: in primis, dopo gli anni di rilancio del Nuovo Banco Ambrosiano, la privatizzazione dello stesso, con l’uscita dall’azionariato di IMI e BNL (banche pubbliche) e il subentro al loro posto di quattro Banche Popolari Venete e di Gemina. Il decennio che la finanza, non solo italiana, stava vivendo si annunciava foriero di profondi cambiamenti. L’Inghilterra di Margaret Thatcher, stava sperimentando con successo una linea di politica economica dichiaratamente liberista che affermava il primato degli interessi individuali su quelli sociali e indirizzava le imprese all’obiettivo esclusivo della ricerca di efficienza e del profitto. Bazoli aveva una visione ben diversa dell’economia e in particolare dell’impresa, intesa come organismo destinato a soddisfare gli interessi di tutti gli stakeholder e non solo degli azionisti e dei top-manager. In quel clima sempre più aggressivo il professor Bazoli si trovò, quasi all’improvviso, a dover fronteggiare l’attacco di uno schieramento che comprendeva Fiat, Gemina e Mediobanca a fianco delle Assicurazioni Generali (cioè l’intero Gotha  dell’imprenditoria italiana), deciso ad acquisire il controllo del Nuovo Banco Ambrosiano. Approfittando di una situazione di difficoltà in cui era venuta a trovarsi la Banca Popolare di Milano e che la induceva a vendere la sua quota, Mediobanca convinse il presidente della stessa (che era Piero Schlesinger, collega accademico di Bazoli all’Università Cattolica di Milano) a proporre come acquirente le Assicurazioni Generali. A Bazoli, Presidente del Sindacato che riuniva gli azionisti del Banco, fu concesso un mese di tempo per l’esercizio di una eventuale prelazione a favore di un acquirente diverso. Fu un mese concitato, durante il quale Bazoli non si peritò di esprimere a Gianni Agnelli tutto il suo sconcerto per la scalata alla banca da parte di un gruppo amico, che egli aveva fatto entrare nell’azionariato. In un vertice tenuto a New York fra Cesare Romiti, Giampiero Pesenti (Presidente di Gemina) e lo
stesso Agnelli, Bazoli tentò una mediazione, chiedendo invano garanzie e rassicurazioni sulla futura autonomia della banca. Agnelli tacque per gran parte dell’incontro. Fu così che Bazoli mostrò il suo lato meno conciliante – evidenziando come la moderazione e l’attitudine alla mediazione non escludessero in lui, quando occorresse, l’estrema fermezza e l’audacia – e riuscì, con mossa inattesa, a convincere un solido gruppo francese, il Crédit Agricole, a proporsi come nuovo Socio. Fra il Crédit Agricole e le Generali scoppiò il conflitto, ma Bazoli – appoggiato anche dal Governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi – riuscì a imporre un
accordo tra le parti, che consentì alla banca francese di entrare nel Sindacato insieme ad Alleanza, una società controllata delle Generali. Contemporaneamente Bazoli perfezionava la fusione tra il Nuovo Banco e la Banca Cattolica del Veneto, un’operazione che fece nascere un gruppo bancario – denominato Ambrosiano Veneto – di grande solidità ed efficienza. Aveva ragione Enrico Cuccia a guardare con crescente attenzione al banchiere bresciano che, pur non eguagliando ancora la sua autorevolezza, stava conseguendo risultati che potevano intaccare la sua posizione di assoluto “dominus” della finanza. Cuccia, infatti, era considerato alla fine del secolo scorso, come ha scritto Marcello Sorgi, “il padrone dei padroni”, in ragione della “tutela” che esercitava sull’intero sistema capitalistico italiano e su alcune delle maggiori banche pubbliche, alle quali formalmente avrebbe dovuto essere sottomesso, ma che in realtà governava a sua discrezione”. “Certo, nei primi anni di vita del Nuovo Banco Ambrosiano i miei rapporti con Cuccia furono prevalentemente conflittuali. Alla fine, però, sono completamente cambiati”, dichiara oggi Bazoli, con accenti non solo di stima ma quasi di nostalgia nei confronti dell’uomo che negli ultimi anni sarebbe diventato un suo interlocutore
privilegiato. Dopo aver difeso l’autonomia del suo istituto, Bazoli ne consolida gli assetti e attua una politica di espansione
che ridisegna i confini geografici dell’istituto (diventato, come si è detto, Banco Ambroveneto). Punta al sud della nazione acquisendo Citibank Italia (con sportelli ubicati fra la Puglia, la Calabria e la Campania), al nord con l’inclusione della Banca di Trento e Bolzano e, più tardi, della Cassa di Risparmio di Parma. A Vicenza, in quel Veneto che stava portando a compimento il proprio miracolo economico, la dirigenza dell’Ambroveneto valorizza Palazzo Leoni Montanari, storica sede della Banca Cattolica del Veneto, trasformandolo in sede di convegni e mostre. Finanzia l’acquisto di alcune centinaia di antiche e preziose icone russe.
In tal modo l’istituto, su impulso del suo Presidente, dà il via a una politica di sostegno all’arte e alla cultura che  da quel momento vedrà moltiplicarsi gli interventi, nella progressiva messa a punto di un modello di banca che non soggiace alle sole leggi del mercato. Di lì a qualche anno, come vedremo, Milano beneficerà in modo particolare di tale progetto culturale. Nel ’94, in concomitanza con la scadenza del Patto di Sindacato e con la messa in vendita della quota posseduta dalle banche popolari venete, Mediobanca tenta un altro attacco al Banco Ambrosiano Veneto. Questa volta è la Comit – la banca di Stato a lungo retta dal “banchiere umanista” Raffaele Mattioli, e che, una volta privatizzata, è passata sotto l’influenza di Cuccia – a tentare la scalata all’istituto presieduto da Bazoli. La situazione pare non lasciare alcun margine di difesa a Bazoli, che in questa estrema circostanza decide di sfidare l’azzardo. In nome dei buoni rapporti da sempre intrattenuti con gli azionisti veneti (coordinati da Giorgio Zanotto,
suo amico di lunga data), chiede e ottiene dai Presidenti delle quattro banche popolari, mostrando di avere delle carte in mano che in realtà non ha, un’opzione esclusiva di acquisto della durata di un mese. Nessun avvocato è presente all’incontro, ma Bazoli, facendo ricorso alle competenze della sua antica professione, stila personalmente l’accordo e riesce a convincere tutti a firmarlo. Aveva guadagnato solo un mese di tempo, ma creato un vincolo al quale le banche venete avrebbero dovuto attenersi e che sarebbe risultato decisivo. Infatti, nei giorni immediatamente successivi, la Comit lancia un’offerta pubblica di acquisto, rivolta principalmente alle banche venete. Queste non possono accettarla. Ma anche gli altri azionisti non aderiscono all’offerta, impegnandosi ad acquisire pro quota le azioni delle popolari venete. In particolare i francesi del Crédit Agricole si schierano a difesa di un progetto che – affermarono – “è nato da lontano e guarda lontano facendo perno su Bazoli”. L’ennesimo attacco di via Filodrammatici viene così respinto. A questo punto Giovanni Bazoli ritenne venuto il momento di avviare una stagione diversa con il suo “miglior nemico”, Enrico Cuccia. Un primo colloquio avvenne a Brescia, a casa di Bazoli, dove i due uomini della finanza, distanti quasi una generazione, ma accumunati dalla medesima riservatezza, trovarono un’intesa che sarebbe proseguita nei mesi successivi. Gli incontri proseguirono a Milano. “Ci vedevamo di nascosto”, dice il professore, tornando con la memoria a una dimora appartata in
Piazza del Carmine dove, come ha ricordato Carlo Bellavite Pellegrini, “Cuccia compariva da solo, nella nebbia e nelle luci fioche della sera invernale. […] Una stretta di mano e i due entravano insieme, senza incontrare nessuno in un palazzo che sembrava disabitato. Per raggiungere l’appartamento dell’incontro, dovevano attraversare due cortili monumentali, immersi in un silenzio
spettrale.” Gli anni a venire garantirono una buona stabilità, tuttavia Bazoli, era sempre più consapevole che il quadro delineatosi a seguito delle operazioni di privatizzazione e concentrazione esigeva alcuni cambiamenti anche nella gestione delle attività finanziarie. Scelse pertanto il nuovo capo operativo della banca al di fuori del mondo bancario, individuandolo in Corrado Passera, già amministratore delegato dell’Olivetti. L’efficienza e la produttività dell’industria dovevano entrare anche nel settore creditizio, così da affrontare con maggiore competitività la sfida che il futuro e il mercato stavano lanciando nel mondo globalizzato. Bisognava “essere capaci di arricchire l’offerta dei prodotti e la qualità del servizio”, dichiarò Bazoli il 2 dicembre 1996,
celebrando il centenario del Banco Ambrosiano e intervenendo alla Scala difronte a un teatro gremito. Una parentesi – necessaria e importante in questo racconto –: Bazoli ha sempre dichiarato di non essere un manager e di aver lasciato la massima autonomia gestionale ai propri collaboratori, riservando al ruolo di Presidente le decisioni strategiche, la gestione delle operazioni straordinarie e la scelta dei principali manager apicali. Nell’esercizio di quest’ultima funzione – che le sopravvenute regole di governance rendono sempre meno appannaggio dei Presidenti – Bazoli si compiace di aver chiamato a guidare la banca nei trent’anni della sua
presidenza alcuni manager di rare qualità: dopo l’uscita di Pierdomenico Gallo, nel decennio 1987-1997 Gino Trombi e Carlo Salvatori; poi, per dieci anni consecutivi, Corrado Passera; e da ultimo Carlo Messina, che ha dato un particolare contributo alla crescita del prestigio di Intesa Sanpaolo anche a livello internazionale. “Il merito dei brillanti risultati economici ottenuti dal Gruppo
da me presieduto – dichiara Bazoli – è quindi tutto da attribuire all’impegno e alla grande professionalità dei manager di cui la banca ha potuto avvalersi”. Nel perseguire il progetto di rafforzamento della banca a Bazoli si offrì, nel 1996, il possibile obiettivo della
Cassa di Risparmio delle Province Lombarde. A seguito della legge Amato era nata la Fondazione Cariplo, guidata da Giuseppe Guzzetti (già Presidente della Regione Lombardia e conosciuto da Bazoli tramite Beniamino Andreatta), che aveva aperto una gara per l’acquisto della banca. Ma Bazoli sapeva che anche la dirigenza della Comit era interessata all’acquisto della Cariplo e che quindi, se fosse entrato in gara, si sarebbe rinnovato l’ennesimo scontro con i maggiori poteri della finanza nazionale. E questa volta Bazoli era incerto: non si chiedeva soltanto se fossero adeguate al nuovo confronto le risorse finanziarie della banca da lui presieduta, ma dubitava delle sue stesse energie personali. Nell’ottobre di quell’anno era morto in un incidente stradale il fratello
Luigi – che nel 1974 aveva perso la moglie nella strage di Piazza della Loggia di Brescia – lasciando tre figli ancora giovani. Quel lutto e il rinnovarsi di un dolore antico, lo inducevano a coltivare nell’intimo il pensiero di ritirarsi. Ebbe d’improvviso l’idea di confidarsi con Cuccia, cioè di verificare come sarebbe stata accolta un’iniziativa del Banco Ambroveneto nei confronti della Cariplo. La reazione del “grande vecchio” fu del tutto inattesa. Cuccia diffidava della natura pubblica della Cariplo e temeva che potesse “contagiare” la Comit. L’operazione, a suo avviso, richiedeva una particolare capacità di trattare  con il mondo politico, capacità che Cuccia riconosceva a Bazoli: “Lei è il solo che può farcela”, concluse, incoraggiandolo a presentare un’offerta.
A quel punto, Bazoli gli rivelò la propria fragilità di uomo colpito dalla recente perdita del fratello. Questa manifestazione di confidenza fu ricambiata in modo sorprendente da Cuccia, che gli manifestò una profonda comprensione, rivelando che due giorni prima, dopo sessant’anni di matrimonio, aveva perso la moglie. “E nonostante questo non ha disdetto il nostro incontro…”, pensò Bazoli, ammirato dalle qualità umane e spirituali del fragile vegliardo che era seduto accanto a lui al grande tavolo della sala riunioni dove lo riceveva. Si alzò di scatto, anche Cuccia si alzò, e si abbracciarono. Cuccia, congedandolo, gli affidò un placet per l’acquisto della Cariplo, accompagnato anche dall’impegno (poi effettivamente onorato) di studiare insieme l’offerta da avanzare. Grande fu quindi l’incredulità di Bazoli quando apprese che la Comit aveva modificato la sua offerta originaria, presentando in extremis una seconda proposta, in tutto simile a quella dell’Ambroveneto. Era intollerabile per lui il pensiero che fosse stato Cuccia a tradirlo e fu
con enorme sollievo che ricevette una lettera con la quale Cuccia si dissociava dall’operato dei dirigenti della Comit. La Fondazione scelse poi l’offerta dell’Ambroveneto, che quindi si fuse con la Cariplo dando vita a Banca Intesa (una denominazione significativa, personalmente scelta dal professore). Al volgere del secolo, la fama del banchiere bresciano (che, nonostante i pressanti impegni, continuava a tornare la sera nella sua città e la domenica a raggiungere lo stadio, da fedele tifoso della squadra locale) si espanse ben oltre le pagine economiche dei giornali. I suoi successi – per lui, uomo schivo, motivo di imbarazzo più che di orgoglio – conobbero l’apice il giorno in cui fu  sancita l’acquisizione del 70% della Banca Commerciale, la gloriosa Comit che, guidata da Raffaele Mattioli, si era distinta in passato per il sostegno alle imprese italiane e straniere, oltre che per il costante supporto al mondo della cultura e dell’arte, ma che recentemente gli era stata più volte avversaria.Accadeva qualcosa di imprevedibile, una sorta di nemesi storica: la banca che cinque anni prima aveva tentato di acquistare l’istituto di Bazoli finiva da questo acquistata. E – fatto ancor più impensabile – ciò avveniva per decisione di Cuccia! L’anziano banchiere aveva infatti deciso di allearsi con Bazoli nel momento in cui una parte del mondo finanziario si era rivoltata contro di lui aggredendo con un’OPA la Banca Commerciale. L’inizio del Millennio vede Bazoli fra i più influenti uomini della nazione e tra i banchieri più conosciuti e stimati in Europa. Non gli mancano i corteggiatori, compresi, inevitabilmente, quelli provenienti dal mondo della politica. Gli viene autorevolmente chiesto di candidarsi alle elezioni come “premier” alla guida di uno schieramento di centrosinistra, visti i suoi orientamenti e i suoi antichi rapporti con Romano Prodi. Ma Bazoli non accetta, ritenendo di doversi concentrare sull’impegno di Presidente di Banca Intesa. Si sta profilando infatti un’ultima decisiva operazione: la fusione con il San Paolo Imi di Torino. I rapporti personali esistenti tra Bazoli e Enrico Salza, Presidente dell’istituto torinese, consentirono di raggiungere l’accordo tra i due grandi gruppi, nell’estate del 2007, in tempi e modi incredibilmente rapidi. Nasce così l’attuale Intesa Sanpaolo, il maggior istituto di credito del Pae­se e uno dei più solidi e redditizi d’Europa. Di esso Bazoli è stato Presidente del Consiglio di Sorveglianza fino alla fine di aprile del 2016 e, opo di allora, è stato nominato Presidente emerito, con l’incarico di seguire la programmazione culturale del Gruppo (mentre la banca è presieduta da Gian Maria Gros-Pietro, con Carlo Messina Consigliere Delegato). Bazoli è fermamente convinto che se nella vita di una
società e delle sue istituzioni viene meno il ruolo strategico della cultura non ci può essere un vero sviluppo politico e civile; ma “neppure può esserci un’equilibrata e sicura crescita economica, come attesta e ammonisce proprio la gravissima crisi che stiamo vivendo in questi anni” – egli ha scritto nel 2013 – essendo certamente imputabile a un’eclissi di principi etici e culturali, quella
corsa sfrenata al tornaconto individuale che, per aver preteso di svincolarsi sempre più da regole e valori, ha portato il sistema sull’orlo di una recessione senza precedenti”. Con questo convincimento, attraverso il Progetto Cultura che ha fortemente voluto, sostiene due grandi iniziative nel cuore di Milano. Nel 2011 la sede storica della Comit – nel cuore di Milano, fra via Manzoni, Piazza Bel-gioioso e Piazza della Scala – trova una destinazione non estranea alla storia di Mattioli e Bazoli, entrambi banchieri “umanisti”: diventa il polo di una più ampia rete museale denominata Gallerie d’Italia, con sedi anche a Vicenza e a Napoli. Si tratta di un sontuoso spazio espositivo, di 8.300 metri quadrati, dai fregi dorati e liberty, dalle splendide vetrate, che Bazoli, grazie alla collaborazione tra la Fondazione Cariplo e Intesa Sanpaolo, “dona” al capoluogo meneghino, all’insegna della continuità di
un impegno culturale di vasto respiro. Nel 2015, in concomitanza con l’Expo, sostiene poi il restauro suggestivamente conservativo e avvenuto in tempi brevissimi, della Casa di Alessandro Manzoni, imperituro simbolo della cultura meneghina e nazionale, che versava da tempo in condizioni precarie. Il giorno dell’inaugurazione è lunga la fila dei milanesi che vogliono “riappropriarsi” delle
stanze in cui Manzoni ha vissuto: lo studio in cui per decenni ha atteso alla stesura della sua opera più famosa, gli scritti autografi, i documenti, i ritratti, ma anche gli oggetti della vita quotidiana, una dimora che lo scrittore desiderava fosse austera e insieme accogliente per la sua famiglia e gli illustri amici che gli facevano visita. Al primo piano del palazzo di via Monte di Pietà, oltre
a seguire gli investimenti culturali di Intesa Sanpaolo, il Presidente Emerito continua a regalare suggerimenti agli Amministratori e ai dirigenti della banca che lo interpellano, raccomandando di non perdere mai di vista l’orizzonte dei valori che hanno dato un’ “anima” alla banca da lui costruita. Quei valori che, forse utopisticamente, prefigurano un nuovo modello economico, “un mercato diversamente regolato” in grado di elaborare una nuova concezione dell’impresa che guardi all’intera compagine degli stakeholders, i tanti soggetti coinvolti nell’impresa stessa, come ha auspicato Bazoli il 7 febbraio 2017 in una lectio magistralis tenuta alla casa Zerilli Marimò della New York University. “Un capitalismo dal volto umano”, capace di tutelare gli interessi di tutti, come ha auspicato anche Jean-Paul Fitoussi. “Un liberalismo che riprenda la lezione di Luigi Einaudi”, precisa Bazoli. Ora, continuando a guardare al futuro – da credente, ma quasi impercettibilmente inquieto, come il Tolstoj da lui prediletto – ricorda uno scritto in cui, alcuni anni fa, nel pieno delle battaglie, aveva chiosato la sconcertante parabola evangelica dei lavoratori della vigna – forse discussa con l’amato cardinal Martini – in cui si narra che i lavoratori chiamati all’ultima ora sono ricompensati come i primi. Contrariamente all’interpretazione di molti esegeti, sosteneva che la decisione del padrone non è dettata dalla bontà che prevale sulla giustizia, bensì da una giustizia superiore: la giustizia divina, che supera quella umana perché conosce e ripara le disuguaglianze esistenti nel mondo. Poi, quasi paventasse di averla perduta, ripensa alla intensa energia intellettuale e spirituale che lo sosteneva in quegli anni. E dichiara: “non c’è sfida più appassionante nella vita che perseguire quell’ideale di giustizia”.