I lavoratori sono alla canna… del fucile

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Non è la prima volta che succede, ma è una delle prime volte in cui lavoratori stranieri con un fucile puntato alla gola trovano il coraggio di denunciare alle forze dell’ordine le condizioni di sfruttamento alle quali sono sottoposti.
Accade a Terracina, in quell’Agro Pontino sempre più tristemente noto alle cronache per la condizione di ricatto sotto la quale tanti braccianti di origine indiana vengono tenuti. Nel comunicato della Cgil viene citato, a ragione, lo schiavismo dei campi di cotone.
E questo caso è emblematico, dice, in un’intervista a RadioArticolo1, il segretario generale della Flai Cgil, Giovanni Mininni, perché il padrone “si è fermato un minuto prima di sparargli, ai lavoratori”. Colmata, nel breve spazio di un lancio di agenzia, quell’ultima, brevissima distanza che ancora divideva il caporalato dei giorni nostri dal sistema disumano nel quale gli schiavi mandavano avanti le piantagioni dei grandi stati americani.
Adesso le analogie ci sono tutte e i secoli non sembrano passati. Le abbiamo raccontate, una dopo l’altra. Nei nostri campi abbiamo raccolto corpi senza vita stroncati dalla fatica, sorpreso lavoratori stranieri alle rotonde, in piena notte, ad aspettare il caporale, li abbiamo visti stiparsi su furgoncini di fortuna a bordo dei quali, a volte, ci hanno lasciato la pelle. Li abbiamo visti ammassati nelle masserie diroccate, macchie di pietra bianca in aperta campagna, a dormire per terra, senza servizi igienici. Costretti a vivere nelle tendopoli, emergenza che diventa normalità.
Li abbiamo visti pagarsi con il loro misero salario giornaliero miseri pranzi al sacco e razioni d’acqua, venduti a peso d’oro dal cartello degli aguzzini. Abbiamo visto le lavoratrici violentate, ridotte a mero oggetto di proprietà del padrone. Abbiamo visto i lavoratori bersaglio di sassaiole in bicicletta, sul ciglio delle provinciali. Li abbiamo perfino letti in catene, in alcune delle cronache più raccapriccianti, nascosti e percossi dai padroni nelle stalle, trattati come le bestie di cui dovevano prendersi cura. Squarciata a colpi di fucile l’ultima frontiera, siamo giunti al punto di non ritorno, in cui c’è il rischio che queste condizioni diventino normali e come tali vengano accettate.
Proprio per questo, lo dice chiaramente Mininni, “la battaglia è, prima di tutto, culturale. Sul modo di concepire i lavoratori, sul modo di concepire il lavoro. Oggi che latita una cultura di rispetto del lavoro, gli argini non ci sono più, o comunque vengono scavalcati con una certa facilità. E questo episodio è sintomatico se si vuole capire cos’è diventato oggi, in alcune ridotte del Paese, il lavoro in agricoltura. Senza generalizzare, dovremmo però interpretare questi picchi di disumanità come il segnale che è urgente intervenire. Per questo la centralità del lavoro nella nostra società, come dimostrano le lotte della Cgil, resta uno dei valori più importanti”.
La solitudine è spesso il detonatore di queste condizioni. Perché la solitudine, la difficoltà a parlare la nostra lingua, la diffidenza e il distacco degli altri, gonfiano quella bolla della quale il lavoratore diventa prigioniero. E farla scoppiare, rompendo il silenzio e denunciando le proprie condizioni, è sempre più difficile. E persino parlare con il sindacato finisce per essere un atto di coraggio.
Per questo la Cgil e la Flai da anni battono le strade e le rotonde e i sentieri di campagna, per dire “siamo qui, con noi potete parlare, vi aiuteremo e non sarete più soli”. Per questo manifesteranno, anche a Terracina, per dire a tutti, non soltanto ai lavoratori sfruttati, che davanti a questi episodi bisogna rialzare la testa. È una battaglia culturale per difendere quel confine sottile tra lavoro e sfruttamento, lungo il quale si misura il grado della nostra civiltà.