Il partito dei patrioti blatera di Nazione mentre sfascia l’Italia

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C’era una volta la Padania, la secessione, il federalismo. Erano i tempi di Roma ladrona, delle canottiere di Bossi, delle ampolle con l’acqua del dio Po

. Il Novecento tramontava quando Roberto Calderoli si sposava con il rito celtico sulle note del Va’ pensiero, l’alternativa padana all’Inno di Mameli. Oggi, dopo aver dato il suo nome alla peggior legge elettorale della storia repubblicana (da lui medesimo ribattezzata porcata) il senatore leghista fa da padrino a un’altra legge cui presta il nome (nasce come ddl Zaia) ed è un’altra porcheria perché farà dell’Italia un Paese a pezzi. Nel senso letterale: quando l’Autonomia differenziata sarà legge, il divario tra Regioni ricche e regioni povere sarà un abisso, con buona pace del Foglio che ieri spiegava: “Le differenze di qualità di servizi esistono già, la legge non distrugge né crea”.

Sarà un ennesimo strappo costituzionale, anche se questa è una legge ordinaria e dunque sarà più facile portarla a casa, visto che la premier – che ama riempirsi la bocca con la parola Nazione – ha scelto di svendere la coesione nazionale e la solidarietà costituzionale (articolo 2) barattandole con il premierato forte. E dunque il partito della patria una e indivisibile abbandona mezzo Paese al suo destino, i Fratelli d’Italia che portano nel nome l’inno nazionale dimenticano lo spirito di quel pezzo, che è tutto un appello all’unione: “Noi siamo da secoli calpesti, derisi perché non siam popolo, perché siam divisi. Raccolgaci un’unica bandiera, una speme: di fonderci insieme”. Martedì in aula è toccato alle opposizioni cantare, per protesta, l’Inno di Mameli.

La storia dei tentativi di spaccare l’Italia è vecchia e il centrosinistra nel 2001 ci ha messo ben più di uno zampino con la pessima riforma del titolo V della Costituzione che ha aperto la strada all’aumento dei divari Nord-Sud e a ulteriori tentativi di manomettere l’impianto unitario dell’architettura statale.

Con il ddl secessionista si realizza la devolution di 23 materie (tra cui scuola, università, energia, infrastrutture, ambiente) attraverso accordi singoli tra Stato e Regioni, sui quali il Parlamento non metterà becco, potendo solo approvare a maggioranza assoluta o respingere senza poter apportare modifiche. E anche sui Lep – i livelli essenziali delle prestazioni che lo Stato deve garantire a tutti – le Camere si limiteranno a dare pareri non vincolanti perché i Lep saranno approvati per Dpcm (ricordate i famigerati decreti del dittatore Conte?).

Le materie sulle quali lo Stato dovrà assicurare i Lep potranno essere devolute alle Regioni solo dopo essere state finanziate, ma come ben spiegava il Fatto di ieri, Bankitalia ha messo nero su bianco che questo “non implica che le prestazioni individuate come essenziali siano adeguatamente finanziate ed effettivamente erogate”. Senza dire che, usando le parole dell’Ufficio parlamentare di bilancio, si potrebbe realizzare “uno scenario estremamente frammentato”, in cui ogni Regione va da sola.

È chiaro che i diritti dei cittadini sono fortemente a rischio: “Si vuole passare da un regionalismo solidale a uno competitivo che l’Italia, con i suoi squilibri economici e territoriali, non potrebbe reggere”, ha scritto Gaetano Azzariti sul nostro giornale un anno fa. Per evitare che le Regioni più povere soccombano si potrà convocare un referendum. Ma il ddl sull’Autonomia differenziata è una legge ordinaria, dunque non è previsto referendum come per le leggi costituzionali in caso di approvazione a maggioranza semplice.

Servono 500 mila firme o la richiesta di cinque Regioni; il referendum abrogativo, al quale le forze di governo si dicono disponibili, ha un quorum: bisognerà che le forze di opposizione diano un segno di esistenza in vita.

Silvia Truzzi