ITALIA, OSSIA LA RICERCA DELLA “GRANDE BELLEZZA” ATTRAVERSO L’AVVENTURA ENOGASTRONOMICA

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Questo “pezzo” lo scrissi a ridosso dello “scoppio” dell’epidemia. Decisi di farlo pubblicare soltanto quando saremmo tornati “a riveder le stelle”. Quel tempo è giunto. Un cappello iniziale, un incipit post-Covid tinto dei colori della nostra Bandiera, però, mi è moralmente doveroso aggiungerlo.
Ogni nostro atto possiede o può possedere una triplice valenza: strettamente umana, giuridica ed economica.
Soffermiamoci sulla terza.
Quando entriamo in un locale italiano o acquistiamo un prodotto italiano compiamo un atto di particolare valore economico, avente effetti direttamente ed indirettamente pecuniari. Nella sua immediatezza e visibilità l’accesso ad un locale o l’acquisto di un prodotto accresceranno di poco o di tanto la sfera patrimoniale del ristoratore o del commerciante, oltre dei lavoratori che gravitano “fisicamente” intorno a loro (camerieri, cuochi, commessi, inservienti, magazzinieri); in via indiretta, però, tutta una filiera o una serie di filiere si attivano ed entrano in funzione, accrescendosi ed arricchendosi. Un euro speso in prodotti o in locali italiani si sparge nelle mani di centinaia e migliaia di addetti che operano nell’allevamento, nella coltivazione, nella fabbricazione, produzione, distribuzione, ideazione, costruzione, vendita, fornitura, trasporto, servizio, elaborazione e offerta. Quell’euro si alloca e si diffonde, in poche parole, nel circuito venuto alla luce grazie alla fantasia creatrice italica, fantasia che ha immaginato e, poi, reso reale il Made in Italy nei cinque continenti. Quell’euro “crea” occupazione, determina le condizioni affinché altri operatori entrino nel mercato e assumano ulteriore manodopera. Quell’euro è il fattore K individuato dalle teorie keynesiane per far tornare a galla l’economia nazionale, ora che è in corso una possente pandemia sociale e lavorativa.
Dopo questa overture, l’abbrivio prenda forza e le parole rinchiuse per troppo tempo nel cassetto escano all’aria aperta per respirare nei cuori e negli intelletti dei lettori.
Il cibo è nutrimento, scoperta, piacere, convivialità. Attraverso le papille gustative fluiscono i segreti e i misteri di cui si compone un Popolo. Il turismo è la linfa vitale della economia italiana (il 13% del PIL, oltre 40 miliardi di euro nel 2019), ossia il nostro “potenzialmente” inesauribile pozzo di petrolio.
Prodotti alimentari e cucina tradizionale compongono un vero e proprio patrimonio culturale – protetto dall’ombrello dell’art. 9 della Costituzione – originante da passione, professionalità, ingegno e fantasia di agricoltori, artigiani e cuochi.
Aprire al turista questo emisfero facendogli cogliere le tante sfumature che rendono unici, e talvolta irripetibili, i sapori di diversi territori, può voler significare fargli vivere un’esperienza indimenticabile, una specie di “viaggio nel viaggio”, oltre lo spazio e il tempo, immemore come solo i ricordi sanno essere.
La collaborazione fra il sistema agroalimentare e quello del turismo può offrire un prodotto completo e composito che fornisce una grande opportunità emozionale al turista (per caso e strutturato), oltre che di crescita per ambedue i settori.
Secondo l’Organizzazione Mondiale del Turismo l’enogastronomia è un segmento in forte ascesa, sospinto proprio dalla vitalità turistica, sia di radice europea che extra-europea e italiana (ci si augura rinvigorita nelle prossime settimane).
In base alla ricerca condotta dal World Food Travel Association (ovviamente prima dell’avvento del Covid), l’interesse verso le esperienze enogastronomiche è (era) in sensibile aumento rispetto agli anni scorsi e ben il 92% dei viaggiatori negli ultimi due anni ha preso parte ad attività legate al cibo, al buon vino e alla birra di qualità (quella italiana non ha nulla da invidiare alla bevanda tedesca, inglese, irlandese o ceca).
Per il 21% le attività gastronomiche costituiscono il principale motivo del viaggio, mentre nel 58% le persone vanno in vacanza per partecipare ad esperienze enologiche, ossia legate al vino, alla birra e ai distillati (fra cui la grappa ne è la regina).
La percezione della rilevanza di questi aspetti nella scelta della destinazione è cresciuta: il 58% considera oggi l’enogastronomia più importante rispetto a quando viaggiava cinque anni fa; non è, quindi, un caso che il 69% degli intervistati dichiari che le proposte enogastronomiche di una destinazione siano state la ragione pulsante della visita.
Quando viaggiano questi turisti ricercano una pluralità di proposte innovative ed autentiche, come esperienze nei ristoranti, visite guidate nelle aziende agricole, nei farmer market e nelle cantine, oltre che nei festival e negli eventi collegati al cibo, al vino e alla birra, proposte spesso abbinate ad altre attività (cultura, musica, spettacoli teatrali, shopping, attività motoria e sportiva). L’opzione, quindi, tende a ricadere su mete che presentino un’offerta ampia, articolata e varia. L’agriturismo “vero” esprime il luogo spaziale e dell’anima per eccellenza, nel quale si somma l’amore per gli animali, la vita contadina, lo sguardo verso il tempo perduto, l’attrazione per la natura: armonia antropica e non antropocentrica che si nutre dell’ecosistema e di cangianti biodiversità.
L’interesse suscitato nel palato del viandante non si esaurisce, pertanto, al concludersi della vacanza. Esperienze soddisfacenti contribuiscono a rendere i villeggianti certamente maggiormente inclini a ritornare (75%) sul luogo visitato, a raccomandare (81%) quanto conosciuto e vissuto e, non da ultimo, ad acquistare quei medesimi prodotti tipici anche una volta ritornati nella propria abitazione (59%).
Oggi il cibo non è più semplicemente una “fonte di sostentamento” (speriamo sia così anche in futuro) ma un modo per sentirsi bene, divertirsi, sperimentare, “fare comunità”.
È cresciuta l’attenzione verso pietanze salubri e di qualità, lontane da contaminazioni chimiche, semplici nella realizzazione e delicate nel sapore, ben distanti dalla artificiosa e spocchiosa raffinatezza della nouvelle cuisine, dal gusto confuso, inestricabile e irrintracciabile: non di questo hanno bisogno molti, in cerca di pietanze rurali abbracciate ad antiche ricette radicate in una saggezza popolare che ancora credeva nella conservazione come valore, perché nulla doveva andare sprecato.
La ricerca della qualità e della tipicità del prodotto è ritenuta oggi un fattore rilevante da ben l’87,6% degli italiani, inducendo sempre più italiani a scoprire località dove poterne godere. Non si cerca soltanto un’area turistica da girare per le sue bellezze monumentali, urbanistiche, edilizie, archeologiche, architettoniche, etnologiche, paleontologiche e storiche, ma anche per scovare una certa pietanza di cui si favoleggia, un determinato vino dal retrogusto indimenticabile, una specifica birra rara a trovarsi, un particolare distillato dall’imperdibile aroma. L’enogastronomia è cultura, connessione tra turista e territorio, correlazione fra passato e presente e che occhieggia al futuro. Non esistono cibo e alcolici senza radici, anzi direi che le radici di una Comunità risiedono nel loro cibo, nei loro piatti, nella fragranza antica e nei sentori ancestrali del nettare delle viti. Probabilmente una larga parte della letteratura italiana e straniera, classica e contemporanea, non esisterebbe neppure senza il frutto dell’uva tanto amato da Bacco. Goethe e Lord Byron su cosa avrebbero poetato senza la bellezza dell’Italia e l’unicità dei suoi sapori culinari? La cultura enogastronomica è parte integrante di quella più ampiamente intesa. Il cibo e il vino sono espressioni delle tradizioni di un borgo o di un paesello sconosciuto alle carte geografiche, di donne e uomini che lì vivono, elementi di identificazione e di differenziazione. La stessa Organizzazione Mondiale del Turismo ha riconosciuto nel turismo enogastronomico uno Giano Bifronte, culturale e, al contempo, patrimonio ideale, sociale e storico di una Nazione.
Lo sviluppo “escursionistico” genera processi di globalizzazione e, contestualmente, di valorizzazione delle risorse locali, dando corpo alla “Glocalization”. Il turista desidera emozioni autentiche e identitarie e la presenza di immortali bellezze artistiche e paesaggistiche non è più l’unico elemento del suo processo decisionale: egli vuole avere la possibilità di entrare in contatto con lo “spirito” che aleggia in quei luoghi. La storia non è solo narrazione di esistenze roboanti, ma racconto soffice di opere di anonimi che hanno fermentato birre per attraversare il tempo e giungere a noi.
Un viaggio è molto più della buccia che si tocca e nasconde a sua insaputa una funzione terapeutica ed educativa: rispetto di culture, costumi e tradizioni aliene, attenzione alla sostenibilità ambientale, accortezza nei confronti della Natura, ricerca interiore di un proprio equilibrio e benessere psico-fisico.
Probabilmente l’esteriorità forma solo la parte minoritaria di un viaggio, cammino intimo e socratico alla scoperta di se stessi.

prof. Fabrizio Giulimondi

Consulente giuridico – normativo presso la Presidenza della Commissione Agricoltura e Produzione Agroalimentare del Senato della Repubblica