La guerra di Erdoğan contro le donne

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E alla fine lo ha fatto davvero. Il governo turco ha annunciato il ritiro dalla Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne, un accordo di cui la Turchia era stata prima firmataria nel 2011, dando agio a Recep Tayyp Erdoğan di vantare una larghezza di vedute sulle condizione femminile sempre più misconosciuta nei fatti. Era tempo che se ne parlava nelle stanze della politica, mentre le piazze si riempivano della protesta delle donne, come sta accadendo in queste ore in tutto il Paese. Femministe alla sbarra e sconti di pena per gli assassini, la Turchia fanalino di coda nel ranking internazionale sulle disuguaglianze di genere: 130esima su 149 nella classifica del World economic forum. Erdogan ha sacrificato le donne alla sua idea di potere e società tradizionale, da ultimo sposando le tesi dei gruppi islamici più conservatori nel momento in cui la sua autorità vacilla sotto il peso di un’economia sull’orlo del baratro e si teme ad ore un tracollo della lira alla riapertura dei mercati, dopo la sostituzione del terzo governatore della Banca centrale. Parlare d’altro, in questo momento, è comunque meglio.
Femminicidi non registrati

Nessuna statistica, nessun conteggio ufficiale. Delle donne uccise, da mariti, fidanzati, parenti o pretendenti, non resta traccia, finiscono genericamente tra i casi di morte violenta, senza note a margine mentre nei tribunali torna a risuonare la parola onore, per derubricare un femminicidio a reato minore. Secondo la piattaforma turca “Fermiamo i femminicidi” solo nel 2020 ci sono state 300 donne uccise e 171 casi sospetti: troppe morti vengono classificate come suicidi, quando non come banali incidenti: un fucile inceppato, una caduta. Una corda al collo, un volo dalla finestra. La bilancia della giustizia pende dalla parte dell’uomo che uccide, perché si è sentito respinto, disonorato, “offeso nella propria mascolinità”.

La Convenzione di Istanbul non si è mai tradotta in Turchia in politiche di prevenzione, ma uscirne è comunque un gigantesco passo indietro, tanto più se ispirato da presunte motivazioni religiose. Gli ambienti più conservatori dell’Akp, il partito di Erdogan, sostengono che l’accordo sarebbe in contrasto con i principi dell’islam, minerebbe la solidità della famiglia e favorirebbe l’omosessualità. Il richiamo, espresso esplicitamente dal vicepresidente turco, Fiat Oktay, è alla necessità di «elevare la dignità delle donne turche» prendendo ispirazione «nelle nostre tradizioni e nei nostri costumi»: non dunque in un accordo internazionale che sancisce la parità dei generi.
Occhi bassi e ventri pieni

Le tradizioni sono quelle che vengono ribadite ad ogni occasione. Perché la guerra di Erdogan contro le donne è cominciata ben prima di quest’ultima sciagurata decisione. Dal suo governo è stato un continuo stillicidio. Ministri che hanno affermato che la disoccupazione è colpa delle donne che pretendono di lavorare (l’occupazione femminile è appena al 34% e, inutile dirlo, in ambiti informali o comunque sottopagati) o che le donne non dovrebbero ridere troppo forte quando sono in pubblico. Occhi bassi e ventri pieni. Erdogan ha paragonato la contraccezione al tradimento, ha affermato che ogni donna turca dovrebbe mettere al mondo almeno tre figli, ha fatto di tutto per rendere l’aborto un diritto solo sulla carta. “Una donna non può essere trattata come un uomo”, sono sue parole. In un G20 del 2019 ha detto che avrebbe promosso università solo per donne, perché si concentrino meglio sugli studi, quando in Turchia come altrove nel mondo il successo scolastico vede una netta supremazia femminile: per le associazioni femministe il rischio della segregazione culturale è quello di un’ulteriore marginalizzazione delle donne.

Segnali che nella società turca sono risuonati come tanti via libera a violenze e discriminazioni. Nei primi 65 giorni del 2021, complice anche la pandemia e i lockdown, ci sono state 65 vittime, una al giorno.

Ma autoritarismo e guerra alle donne non sono prerogativa solo di Erdoğan. Nell’Unione Europea, per l’ingresso nella quale la Turchia resta ancora candidata, Polonia e Ungheria hanno fatto del loro meglio per distinguersi in questa attitudine. La prima ha minacciato di uscire dalla Convenzione di Istanbul, la seconda non l’ha ratificata. Sarà il caso che da qualche parte qualcuno si ricordi che i diritti delle donne sono diritti umani, inderogabili.                                                                                                                     Di Marina Mastroluca