Le attività non necessarie devono essere fermate

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Il paese non si può fermare completamente, chi chiede questo è in malafede o non in possesso delle proprie facoltà. Non si possono fermare le attività legate a trasporti e logistica; a sanità, cura e sicurezza dei cittadini; alle filiere di carne, pesca e agroindustria; all’approvvigionamento e alla vendita di alimenti e generi di prima necessità; alla produzione e alla distribuzione di energia elettrica e di combustibili ad usi industriali e civili; al ciclo dei rifiuti.

Ciò detto, se è vero – ed è vero – che siamo in emergenza, in una vera emergenza in cui è a rischio la vita di un gran numero di persone, buona parte di tutte le altre attività possono e devono essere fermate fino a quando necessario. Mi piacerebbe che questa fosse anche la consapevolezza delle imprese. Non si possono accampare motivazioni legate ai portafogli ordini, agli impegni di consegna, alle eventuali penali, quando chi produce i beni e i prodotti da vendere rischia la vita per entrare in una fabbrica, in una officina, in uno stabilimento di produzione.

Sarebbe meglio decidere di fermarsi, assicurando continuità di reddito e di buona salute ai dipendenti e utilizzando gli strumenti che il governo e gli accordi tra le parti sociali hanno reso disponibili, prima che si verifichino danni e conseguenze più gravi. Anche perché, se abbiamo contezza di cosa significhino i concetti di “just in time” e “lean production”, tra poco – visto ciò che sta succedendo in Europa e nel mondo – le scorte finiranno, i magazzini saranno vuoti e la produzione si bloccherà comunque.

È il modello produttivo del ventunesimo secolo, bellezze! L’avete voluto e ora è lì, nel bene e nel male. Dunque, fermatevi, fermiamoci, fermiamo tutte quelle attività che non possono svolgersi nel rispetto assoluto di tutte le prescrizioni di sicurezza o non possono essere effettuate a distanza. E, soprattutto, smettiamo di sfidare l’intelligenza di chi al mattino indossa tute blu e camici da lavoro e va in fabbrica e in ufficio, mentre poi quando a fine turno timbra il cartellino o striscia il badge per tornare a casa non deve uscire, deve stare a distanza di un metro, non deve andare a passeggio, eccetera.

A queste persone, a quelli che devono lavorare perché non se ne può fare a meno, inoltre, non possiamo fare l’affronto di offrire cento euro di premio (peraltro riparametrati per i giorni di effettiva presenza) per aver lavorato in favore della società nel vivo del rischio di contagio. A queste persone bisognerebbe dare la medaglia al valore civile con consegna da parte del Presidente della Repubblica al Quirinale, oltre a un congruo periodo di congedo retribuito e a un buono babysitter al bisogno, quando tutto sarà finito. Questo vi volevo dire, nella segreta ma impraticabile speranza di vivere in Corea del Sud e di essere controllato dalle autorità sanitarie di quel paese, in questo disgraziato momento. Ma ci vorrebbe anche la conoscenza e la pratica del “nunchi”, e qui davvero alzo le braccia. Buona fortuna a tutti noi.

Fausto Durante