Letizia Brichetto Arnaboldi Moratti

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Presidente del Consiglio di Gestione di UBI

Tratto da “ Banchieri “ di Beppe Ghisolfi – ARAGNO Editore

Desidero dire in premessa che devo tutta la mia formazione e il mio percorso umano, oltre che professionale, alle persone che nella vita mi hanno aiutata e sostenuta. A mia madre, innanzitutto, che mi ha mostrato l’importanza dell’amore e degli affetti. A mio padre, che mi ha trasmesso la disciplina e l’impegno. Ai miei figli,il cui affetto mi ha sempre riscaldata, particolarmente nei momenti difficili. A mio marito, in particolare, con il quale ho sempre condiviso tutto, dalla gestione familiare ad ogni singola decisione, e che mi ha sempre consigliata e appoggiata nelle scelte professionali. Anche a tutti i miei collaboratori, che sono stati e che sono coloro che mi hanno permesso di raggiungere tanti risultati, per prima Luciana Barazzoni che è con me da 40 anni. Sono nata a Milano il 26 novembre 1949, alla vigilia del cosiddetto miracolo economico italiano, un periodo storico caratterizzato dall’entusiasmo di una forte crescita del pae­se dopo l’iniziale fase di ricostruzione post bellica. Ho vissuto un’infanzia ed una giovinezza leggera e conservo ricordi pieni e bellissimi di quel periodo, così come della mia famiglia e degli amici che erano con me.Studiavo ed ero piuttosto brava, lo ammetto, ma avevo anche altre passioni, come quella dell’arte e per il ballo, che mi hanno poi accompagnata per tutta la vita. Fin dalla giovinezza, ho sempre cercato di investire su me stessa, a cominciare dalle scelte negli studi. Dopo il liceo ho insistito infatti per poter frequentare l’università ed in quegli anni non era poi così normale per una
ragazza. Mia mamma, per esempio, non comprendeva a pieno il perché io volessi laurearmi. Dal canto mio, ho sempre vissuto quel periodo di formazione come una leva per affermare la mia indipendenza. Dal momento che avevo frequentato il liceo classico e desideravo avere una maggior comprensione di come fosse la vita delle società moderne decisi di puntare su Scienze politiche, una facoltà che ritenevo mi aprisse diverse strade. Anche di questa scelta i miei genitori non erano così convinti e ci ho messo del tempo a farli ricredere. Era un atteggiamento, il mio, teso a garantirmi una certa indipendenza, un modo di pensare affine al pensiero del ’68, un anno di grande rottura che incrociai proprio a cavallo tra il liceo e l’università. Ho vissuto in maniera più personale il ’68 rispetto ad altri. Per me è stato un percorso di crescita costruttivo: ho scelto di no abbandonarmi all’antagonismo, ma ho comunque combattuto una piccola rivoluzione, in contrasto con gli schemi più tradizionali e rigidi dei miei genitori e più in generale con la mentalità dell’epoca, a causa della quale, ad esempio, poche mie amiche avevano scelto di studiare e poi di lavorare. Credo sia stato in quegli anni che ho iniziato a maturare la propensione al fare e la concretezza che hanno caratterizzato l’evoluzione del mio percorso nella professione e nelle istituzioni. Dall’università al mondo del lavoro per me il salto è stato breve, anzi brevissimo. Ricordo di essermi laureata il venerdì e di aver iniziato come assistente di Diritto comunitario europeo del Professor Fausto Pocar il lunedì seguente. Ma già prima di laurearmi entrai a lavorare nell’azienda di mio padre, la Brichetto Assicurazioni, la più antica società di brokeraggio assicurativo in Italia, dove ho mosso i primi passi. Mi sembrava un modo per poter essere vicina alla mia famiglia, ma allo stesso tempo acquisire quelle competenze che credevo mi sarebbero servite nel progetto imprenditoriale che avevo in mente e che da lì a poco avrei iniziato. Mio padre mi mandò a Londra per migliorare la comprensione del settore e del mercato laddove questi erano stati creati. Gli anni nel Regno Unito furono per me particolarmente positivi, anzi devo dire di essermi trovata quasi meglio a Londra che in Italia. Con il senno di poi, posso dire di aver fatto più fatica a lavorare come giovane donna in un settore che allora era prevalentemente maschile nel nostro pae­se piuttosto che in Inghilterra. A 23 anni, dopo l’esperienza in Inghilterra ed il matrimonio con mio marito Gian Marco, ho fondato la mia società, la Gpa. Non fu facile: partii da sola, con un’assistente part time. Facevo più o meno tutto io, consegnavo anche le lettere e i pacchi di persona. Fu un periodo intenso, ma bellissimo. Era stato mio suocero, Angelo Moratti, a spronarmi e ad incoraggiarmi, ad aiutarmi a capire che potevo farcela. Era una persona straordinaria, umana e generosa, capace di dare fiducia ad una giovane ragazza con tanta voglia di fare come ero io. Ma non posso negare che se ho potuto farlo è stato anche grazie alla fideiussione che una banca importante mi ha concesso, probabilmente grazie al nome che portavo. E questo mi ha da subito fatto riflettere sull’importanza di aiutare tutti giovani ad intraprendere la propria attività. Inizialmente avevo identificato un socio che prima di impegnarsi direttamente, decise di aspettare e vedere se fossi in grado di camminare con le mie gambe. In breve tempo dimostrai di saper creare lavoro e di poter gestire una società che faceva utile. Quel socio mi affiancò e lavorando insieme quasi venti anni, creammo il secondo gruppo nel mercato del brokeraggio assicurativo in Italia. Come in tutte le storie imprenditoriali, anche il mio percorso fu ostacolato da alcuni momenti difficili. Il primo arrivò quando fui costretta a vendere la mia società, proprio quella Gpa che avevo costruito mattone dopo mattone per venti anni. La scelta di vendere fu legata ad una asimmetria di vedute con il mio socio, in particolar modo sulle diverse impostazioni strategiche che volevamo dare al futuro della società e dei mercati da presidiare. A quarant’anni mi ritrovai professionalmente al punto di partenza. Avevo tenuto la mia piccola società di brokeraggio, quella con il cognome di famiglia e in due anni mi ripresi quasi tutti i clienti che avevo lasciato. Fu molto impegnativo, ma una sfida emozionante, a ripensarci oggi. Successivamente ho acquisito il controllo del gruppo assicurativo Nikols che versava in una difficile situazione economica e societaria. La ristrutturazione del Gruppo fu un lavoro intenso, ma produsse un risultato di particolare soddisfazione personale. Alla fine del 1998 infatti, Nikols era la prima società del mercato italiano e in quello stesso anno, siglai un accordo con Sedgwick, terza al mondo, entrando nel board di quest’ultima a Londra con la responsabilità della gestione di tutto il sud Europa e del sud America, all’incirca sessanta società in dodici diversi paesi. L’anno successivo Sedgwick decise di vendere ed io optai per un’operazione di estrema difficoltà. Esercitai un’opzione call che avevo sulle azioni Nikols, comprendendo l’interesse di altri gruppi del settore nei confronti di quello che avevo costruito. Non sbagliai e qualche tempo dopo ho venduto Nikols alla Aon Corporation di cui è ancora oggi un prezioso ingranaggio. All’incirca a metà del percorso di Nikols, nel 1994 arrivò il mio primo incarico pubblico, quello da Presidente della Rai, un ruolo di grande responsabilità che per la prima volta nella storia di quell’azienda veniva affidato ad una donna. Ricordo di aver vissuto l’attesa del mio insediamento in Rai con sensazioni contrastanti. Da un lato, c’era la grande sfida professionale nella gestione di un’azienda così grande e complessa, dall’altro c’era una parallela e sana preoccupazione per le responsabilità che il ruolo comportava, nei confronti del Pae­se e dei cittadini, ma anche nei confronti della mia famiglia ed in particolare del sacrificio del tempo dedicato ai miei due figli che erano ancora giovanissimi. I primi mesi furono particolarmente impegnativi, di giorno lavoravo, di notte studiavo l’azienda, la sua storia e sue peculiarità. Parte del mio carattere e di una certa propensione a prendere decisioni coraggiose si consolidarono durante quel mio periodo in Rai. Scelsi di allontanare persone che non ritenevo adatte al buon andamento dell’azienda e al mio progetto di ristrutturazione, valorizzando invece le tante professionalità straordinarie che trovai all’interno della Rai. Cercai di intervenire su quelli che ritenevo fossero i punti di debolezza dell’azienda, a cominciare dall’eccesso di interferenza politica, con la creazione di un apposito organismo di autocontrollo, un meccanismo semplice ma efficace per non creare squilibri. Sotto la mia gestione riportammo in ordine i conti dell’azienda, passando da una perdita di circa 200 miliardi di lire a un ricavo, rinunciando ai 300 milioni pubblici che annualmente venivano stanziati per la Rai e senza aumentare il canone. Tra l’altro in un periodo di significativa trasformazione, dal momento che proprio in quegli anni la Rai stava iniziando il suo ingresso nel
digitale e nelle nuove tecnologie. Infine, ed è una delle iniziative intraprese di cui vado più fiera, avviammo il Segretariato sociale che ancora oggi è un esempio positivo dell’impegno della Rai come servizio di pubblica utilità. Terminata l’esperienza con il Gruppo Nikols, alla fine del 1998, e per un anno circa, sono stata membro del Board americano di News Corp e Presidente e Amministratore Delegato di News Corp Europe, società facente capo a Rupert Murdoch, che ho lanciato in Europa e attraverso la quale ho acquistato per il Gruppo una percentuale dell’allora Stream, che qualche anno dopo sarebbe diventata l’odierna Sky Italia. Vi è stata poi una breve parentesi nel campo delle nuove tecnologie con la società di investimento denominata Syntek Capital, che, pur riuscendo a finanziare nuove aziende in quel settore allora nascente, ha risentito dello scoppio della bolla della new economy e negli anni successivi alla mia gestione ha cessato di operare portando a realizzo gli investimenti a suo tempo posti in essere. Dal 2001 al 2006 ho ricoperto l’incarico di Ministro per l’Educazione, l’Università e la Ricerca scientifica, proprio io che avevo fatto dello studio la leva per l’affrancamento dalla famiglia e la ricerca di indipendenza personale. Quel Ministero fu una mia precisa scelta: l’allora Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi me ne offrì tre diversi, ma io da subito fui convinta della mia decisione, motivata dalla sicurezza di potermi rendere più utile in quel ruolo rispetto ad altri. Ero infatti certa che in quel ministero potessi incidere e ottenere un vero risultato. Oggi, a distanza di tanti anni, posso dire di esserci riuscita. Abbiamo realizzato la riforma della scuola, la riforma dell’università e la riforma degli enti di ricerca. Quella della scuola era una riforma che l’Italia attendeva dai primi anni ’20: fu infatti la prima legge di sistema fatta dai tempi di Giovanni Gentile, dopo 34 tentativi falliti.
Per molti si trattò di una rivoluzione: creammo due canali paralleli, quello professionale e quello scolastico. I ragazzi e le ragazze potevano formarsi professionalmente e poi tornare a scuola, eventualmente anche proseguendo all’università. La riforma ha riportato in classe 180mila studenti e già questo rappresentava una conferma della bontà del progetto. Ho sempre creduto che le differenze culturali non si colmino dando una scuola uguale a tutti, ma dando a tutti una piena possibilità di realizzare le proprie aspirazioni, aiutando i ragazzi e le ragazze a trovare il proprio percorso. Ancora oggi mi capita di incontrare insegnanti, ma anche studenti di allora oggi adulti, che erano contro la riforma ma che dopo averla sperimentata, hanno cambiato idea. L’impianto era valido, guardava ai modelli di eccellenza europei, come quello tedesco e in gran parte delle successive riforme della scuola ho rivisto parte degli elementi introdotti dalla mia. Il quinquennio alla guida del Ministero per l’Educazione, l’Università e la Ricerca scientifica è stato un periodo di grandi cambiamenti per quegli specifici settori, mutamenti che io ho cercato di cogliere nell’interesse di tutte le parti coinvolte. In qualità di Ministro ad esempio, ho sottoscritto oltre 80 Accordi di collaborazione in ambito scientifico con i più importanti atenei internazionali, concordando reciprocità di fondi e la costituzione di laboratori congiunti e ho promosso importanti progetti di ricerca tra l’Italia e i Paesi del Mediterraneo, così come il reciproco riconoscimento dei titoli universitari tra Italia e paesi nordafricani. Ho inoltre riconosciuto le università a distanza, utili per gli studenti lavoratori, per quanti sono particolarmente lontani dalle sedi universitarie e comunque per tutti coloro che hanno difficoltà ad accedere al sistema accademico tradizionale.
Nel 2006 sono stata eletta Sindaco di Milano, la mia città. Con particolare orgoglio ricordo di essere anche stata la prima donna a ricoprire questo incarico. L’esperienza alla guida di Milano rappresenta la più intensa da un punto di vista emotivo e di impegno personale, ma sono orgogliosa di ritrovare oggi nella città l’impronta della mia gestione: nelle politiche sociali rafforzate, nei modelli ampliati di mobilità urbana, nel verde e nelle maggiori opportunità culturali. Nel corso del mio mandato avevo infatti cercato di identificare alcuni progetti in grado di valorizzare le caratteristiche positive di Milano e tracciare una linea che potesse rafforzarne l’identità come città innovativa e sostenibile. Nell’elaborare il mio progetto per la città avevo tenuto conto delle diverse esigenze che mi erano state proposte dai cittadini, ad esempio su sicurezza e servizi sociali e identificato anche un sogno per Milano, un “progetto bandiera” per la città. Questo sogno era l’esposizione universale: offriva l’opportunità di un evento di più lunga durata rispetto a Olimpiadi o Mondiali, di maggior crescita in termini di PIL e occupazione per tutta l’area milanese e per il pae­se, ma allo stesso tempo garantiva sviluppo turistico e valorizzazione del comparto agroalimentare ed energetico, entrambi importanti per l’Italia. Per me Expo 2015 ha rappresentato quel progetto bandiera e ne sono particolarmente orgogliosa, perché già nel 2008, l’assegnazione a Milano aveva, a mio giudizio, anticipato alcuni insegnamenti che anche oggi restano molto attuali. In primo luogo, l’impegno bipartisan di molte forze politiche aveva mostrato come potesse essere efficace la collaborazione e il dialogo per un obiettivo comune, anticipando in qualche modo il superamento di schemi politici del passato nell’interesse di un obiettivo comune. In secondo luogo, Expo a Milano ha reso evidente il fatto che, quando l’Italia lavora insieme, valorizzando le proprie eccellenze, è in grado di ottenere grandi risultati. Università, Centri di ricerca, Imprese, Banche, Sindacati, hanno lavorato a stretto contatto con le Istituzioni nazionali e locali, con una capacità di dialogo auspicabile e che dovrebbe essere sempre replicata, non solo per progetti di queste dimensioni. Terminata l’esperienza di Sindaco della mia città, ho deciso di dedicare il mio impegno personale e le mie competenze professionali per lo sviluppo, anche in Italia, dell’economia sociale di mercato, favorendo la diffusione nel nostro pae­se di una maggiore consapevolezza e cultura sul tema della cosiddetta finanza sociale e degli strumenti da essa utilizzati, come ad esempio i social impact bond. Per questo, dal 2013 ho partecipato all’Italian Advisory Board della Social Impact Investment Taskforce del G8, un gruppo di lavoro che ha contribuito ad estendere le potenzialità, sia in ambito nazionale sia internazionale, dell’imprenditoria sociale e della finanza ad impatto, come agenti di sviluppo di una economia inclusiva. Vedevo infatti in quegli anni un cambio rapido nella nostra società, con la nascita di una nuova ed interdipendente economia globale ed un modello economico e sociale senza precedenti. Abbiamo potuto osservare i danni determinati da quella che in molti hanno definito la “tirannia del breve periodo”: enormi quantità di risorse monetarie sono state gestite da pochi in un’ottica del tutto speculativa, senza alcuna prospettiva di reale sviluppo economico ed occupazionale. Questa logica è sembrata essere per tanti, troppi imprenditori, manager, decisori pubblici e privati l’orizzonte al quale guardare. Si è pensato a difendere piccole e grandi rendite di posizione senza interrogarsi effettivamente sul reale ruolo sociale che ogni organizzazione ha, rispetto alla propria comunità di riferimento. Tutto questo non ha fatto altro che incrementare a dismisura l’insicurezza e l’incertezza di ciascuno di noi, mettendo concretamente a rischio la coesione sociale, a livello locale così come a livello globale. Di fronte a questi e altri fattori molti degli strumenti e delle strategie su cui sono stati costruiti la maggior parte dei sistemi sociali occidentali si stanno rivelando obsoleti e inadeguati, richiedendo la ricerca di nuovi paradigmi che possano permettere di superare i problemi presenti. A questo proposito è fondamentale poter disporre di un ecosistema favorevole che sia in grado di stimolare sempre di più la collaborazione tra pubblico e privato, profit e non profit, come indicato anche dall’agenda dei Social Development Goals 2030 i quali, al punto 17 promuovono proprio la partnership tra Governi, settore privato, profit e non profit e società civile. Sono richiesti modi di pensare e agire diversi da parte di individui e istituzioni, azioni che incoraggino nuovi sistemi di welfare ed un ecosistema favorevole ad imprese che si pongono obiettivi sociali. In poche parole: le imprese sociali, che rappresentano già oggi all’interno dell’economia europea il 10% del PIL. La mia attenzione nei confronti del welfare e dell’economia sociale degli ultimi anni mi ha portato a supportare in Italia diverse iniziative in favore di questa rinnovata cultura economica, ma si è rivelata anche un utile bagaglio di conoscenze nel mio successivo incarico professionale. Nell’aprile 2016 sono stata nominata Presidente del Consiglio di Gestione di UBI Banca, un ruolo che per la prima volta viene affidato ad una donna. Per me si è trattato di un ritorno al mondo bancario, dato che tra il 1990 ed il 1994 sono stata consigliere di amministrazione della Banca Commerciale Italiana. Questo primo anno e mezzo è stato particolarmente importante per la storia di UBI ed anche io mi sono calata nel ruolo con l’impegno e la responsabilità richiesta dalla posizione. Nella seconda metà del 2016 abbiamo approvato il Progetto Banca Unica, la fusione in UBI delle sette Banche del Gruppo, e inoltre presentato il Piano Industriale 2016-2020, un piano che pur confermando i punti di forza strutturali del Gruppo, prevede, tra l’altro, un’importante evoluzione dell’approccio commerciale, con il disegno di una nuova strategia sui segmenti di clientela e un’evoluzione del Modello distributivo.Inoltre, è stata co­sti­tui­ta una struttura interna dedicata a tematiche di welfare, finalizzata a intercettare il crescente bisogno di un nuovo approccio nella realizzazione del benessere individuale e sociale, ambiti ricorrenti nella mia recente storia professionale, rispetto ai quali l’esperienza nell’Italian Advisory Board della Social Impact Investment Taskforce del G8 mi ha molto aiutato. In questo lungo percorso, fatto di grandi cambiamenti professionali e di sfide nuove, ho sempre avuto alcuni punti fermi: la mia famiglia e la Comunità di San Patrignano. Della prima non parlo frequentemente: sono molto rispettosa della nostra unione e dei sentimenti che mi legano a mio marito Gian Marco e ai miei figli. Spesso invece dico che San Patrignano è la mia seconda famiglia. Sono legata alla comunità da quasi 40 anni, da quando, con mio marito, abbiamo conosciuto Vincenzo Muccioli e il suo impegno, in quegli anni appena nascente, verso i giovani tossicodipendenti. Da subito gli fummo accanto in quella che allora era una piccola comunità, allestita nella sua casa di campagna, che accoglieva circa una decina di ragazzi in difficoltà. I primissimi erano anni di brandine affiancate nel soggiorno di casa, di roulotte, di assistenza a volte inesperta. Da allora la comunità è cresciuta, si è strutturata e sempre nuovi volontari l’hanno raggiunta, con risultati unici. Sono orgogliosa di far parte della storia di San Patrignano che, dal 1978 a oggi, ha accolto quasi 30.000 persone con gravi problemi di droga e disagio sociale, offrendo loro una casa, l’assistenza sanitaria e legale, la possibilità di studiare, di imparare un lavoro e di reinserirsi pienamente nella società al termine del percorso di recupero. Tutto questo in maniera totalmente gratuita per i ragazzi e per le loro famiglie e senza richiedere rette allo Stato né ad altri Enti Pubblici. Attualmente gli ospiti della Comunità sono circa 1.300, fra i quali anche un centinaio stranieri ed è guidata da quegli stessi ragazzi che per San Patrignano sono passati, in quello che era il sogno e l’eredità vera di Vincenzo. La vicinanza a San Patrignano e ai suoi ragazzi ha nel tempo maturato in me una crescente sensibilità nei confronti dei problemi dei giovani, una propensione che ho sempre cercato di assecondare nel segno di quella concretezza che credo rappresenti il tratto più tangibile del mio percorso professionale. Anche per questo, nel 2015 ho deciso di dar vita alla Fondazione E4Impact di cui sono Presidente, nata da un’iniziativa dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e di primarie aziende del pae­se come Mapei, Salinimpregilo, Bracco, ENI. E4Impact è un’associazione orientata allo sviluppo sostenibile delle economie emergenti, attraverso la formazione post universitaria di una nuova generazione di imprenditori a forte impatto sociale in Africa. Ad oggi i risultati della fondazione, che opera in sette paesi africani, sono particolarmente positivi e mostrano l’efficacia del modello proposto con oltre 600 imprenditori africani formati o in corso di formazione, di cui il 35% donne. Molti di questi, oltre il 70%, hanno già avviato il proprio progetto imprenditoriale, lanciando 120 nuove aziende nel territorio africano e generando oltre 3.500 posti di lavoro tra diretti e indiretti. È un risultato che mi rende orgogliosa e conferma il valore di questa iniziativa che speriamo possa presto crescere ed estendersi anche in altri paesi africani. Il mio ruolo in UBI Banca e quello in E4Impact sono i più recenti capitoli di un libro che finora mi ha riservato sorprese e opportunità sempre nuove; ma ho intenzione di scriverne ancora molte altre pagine, cercando di conservare sempre la passione per quanto faccio e il piacere e l’importanza di condividere con la mia famiglia, con gli amici e con i collaboratori il mio personale percorso umano e professionale.