Ma noi chi siamo? E’ l’ora che il Pd se lo chieda davvero

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Scorrendo molte delle dichiarazioni dei dirigenti nazionali del PD seguite alle dimissioni del segretario Nicola Zingaretti, sembra di leggere uno spensierato “dove eravamo rimasti?”.

Pare, in altri termini, che si intenda proseguire senza affrontare realmente nessuna delle questioni che stanno alla base delle condizioni critiche in cui versa il centrosinistra, né quelle di carattere identitario e culturale, né quelle relative alla forma e al modo d’essere del Partito Democratico.

E dire che ci sarebbe materia per discutere, magari iniziando con il chiedersi come sia potuto accadere che un partito nato con l’ambizione di rappresentare la parte maggioritaria delle donne e degli uomini di questo Paese si sia ridotto al rango di quarta forza politica.
Leggere la realtà

Una domanda banale, se vogliamo, ma non per questo semplice.
Per dare una risposta convincente sarebbe infatti necessario analizzare i mutamenti che hanno sconvolto la società italiana nei quattordici anni di vita del Partito Democratico, prendendo atto – per fare un solo esempio – dell’impressionante crescita del numero di italiane e italiani che in questo non lunghissimo periodo sono precipitati in una condizione di povertà assoluta.

Nel 2007, anno delle primarie che elessero Veltroni, le persone con un reddito inadeguato a garantire una vita dignitosa erano un milione e ottocentomila e l’indice di povertà assoluta era fermo al 3,1%; nel 2020 quel dato si presenta più che triplicato, con oltre cinque milioni e mezzo di persone che non riescono ad accedere a beni e servizi essenziali.

Si tratta di una folla sterminata, composta in larga parte da giovani coppie, da famiglie con figli e da persone impiegate in lavori instabili o mal retribuiti. Un esercito di nuovi poveri diffuso su tutto il territorio nazionale ma concentrato prevalentemente nel Mezzogiorno, nelle aree interne in via di spopolamento e nelle grandi periferie urbane.

Ci si potrebbe fermare a questo dato per comprendere le ragioni che hanno indotto buona parte di coloro che il Partito Democratico avrebbe dovuto rappresentare a guardare da un’altra parte. Se si volesse infierire, però, si potrebbe aggiungere che per undici dei quattordici anni in cui è avvenuto questo enorme sommovimento sociale il PD è stato al Governo del Paese, con formule politiche e alleanze diverse ma sempre con ruoli di piena responsabilità.
Ricostruire un paese solidale

Tutto ciò dovrebbe indurre a riflettere, oltre i risultati ottenuti, sulla qualità della proposta di Governo che il Partito Democratico è stato in grado di avanzare e – al fondo – sulla sua sostanziale incapacità di comprendere tempestivamente gli effetti che le trasformazioni tecnologiche e la globalizzazione neoliberista stavano producendo nella distribuzione mondiale di lavoro, reddito, servizi e conoscenze.

La pandemia si sarebbe potuta rivelare come l’occasione giusta per rimettere in discussione tutto, superando i limiti dell’impianto politico e culturale adottato fino a questo momento e assumendo come centrali le questioni del lavoro, dello sviluppo sostenibile, dell’uguaglianza sociale, territoriale e di genere, della redistribuzione di potere e sapere.

Non che non si sia provato ad imboccare questa strada, ma si è trattato di un tentativo troppo debole ed oggi – nel momento determinante, quello della gestione delle risorse europee – la palla sembra essere sfuggita di mano.

Ne è prova la notizia di questi giorni secondo cui sono stati affidati a una società di consulenze ultraliberista l’elaborazione di uno studio e un supporto per la gestione di progetto del Recovery Plan, mentre è mancata, almeno finora, un grande discussione pubblica nazionale sui contenuti e sull’utilizzo dei fondi europei.

Promuovere quella discussione ovunque, avrebbe dovuto essere e sarebbe oggi uno dei compiti principali delle forze politiche democratiche e soprattutto del PD, che per quella via dovrebbe affermare una visione di paese solidale, aperta al futuro, distante da consorterie, conservatorismi e rendite di posizione.

Oggi il Governo Draghi rende tutto più difficile, per l’eterogeneità delle forze che lo compongono, per gli interessi reali che rappresenta e per lo sbandamento sostanziale in cui è piombato il campo del centrosinistra.

Anche in questo scenario, però, sarebbe comunque possibile per il PD esercitare un ruolo non irrilevante, provando a dar voce a temi e battaglie caratterizzanti: il salario minimo, le nuove forme di rappresentanza del lavoro, la progressività fiscale, l’istruzione gratuita e universale, la transizione ecologica, la coesione territoriale, i nuovi diritti.

Perché ciò possa accadere non basterà un nuovo segretario, per quanto apprezzabile sia la disponibilità di Enrico Letta. Servirà un chiarimento di fondo sull’identità di questo partito, sulle forme del suo agire politico.

Essere un partito, del resto, vuol dire soprattutto scegliere che parte di società si intende organizzare e rappresentare. Il PD sarà in grado di compiere questa scelta?

Negli ultimi anni la sua politica si è “statalizzata”, si è cioè accasata nella sede amministrativa o di governo. Non vinciamo le elezioni da 15 anni (il 2006, con Prodi e l’Unione), di cui 11 passati lo stesso al Governo. Gianni Cuperlo ci ha ricordato come “a dirla nella maniera più semplice, lo stare al governo – in sé, per un partito, traguardo fondamentale – è divenuta l’arte di una classe dirigente sempre più identificata con quella dimensione e sempre più lontana dal bisogno di darne una motivazione solida…”.

In un partito così, la classe dirigente è tale in quanto presidia una carica pubblica ed agisce al fine di conservarla. Si tratta di una malattia che ha pervaso buona parte del corpo del PD, privo di ogni radicamento nei conflitti, che non vede proprio: conflitti sociali, dei nuovi lavori e del lavoro che non c’è, conflitti generazionali, territoriali, di genere, ambientali.

Una malattia accompagnata da un altro vizio: l’omologazione dell’apparire mediatico, che lo porta ad agire con l’ansia di demolire o rottamare: “cambiare tutto, perché nulla cambi”.
Aprire il campo

Politica “statalizzata” (conservazione) e politica “spettacolare” (demolizione), poco importa se e quanto consapevoli, sono due facce della stessa medaglia: sono entrambe inibenti la capacità generativa della sinistra. Questa, invece, dovrebbe radicarsi nelle istanze sociali da cui potrebbe trarre linfa e dovrebbe saper cogliere il polline portato dai movimenti e dal mondo della cultura. Aprire il campo. L’opposto delle molte sconcertanti nostalgie verso un ritorno all’indietro, al partito centrista.

Ci auguriamo che le dimissioni di Zingaretti e la nuova segreteria di Enrico Letta siano l’occasione di una discussione vera sul presente e soprattutto sul futuro: quale analisi su come siamo arrivati fino a qui, cosa è mancato, quale lettura dei conflitti di oggi e come affrontarli, chi rappresentiamo, cosa vogliamo? Noi in altre parole, chi siamo? Rappresentanza, identità, politica, scelta.

O la sinistra saprà dare voce a chi ha meno potere e meno opportunità di pianificare il proprio futuro e la propria vita (lo studio, avere dei figli, un lavoro, una famiglia, andare all’estero, una vecchiaia serena, per noi sinistra è questo), oppure se tutto si risolvesse in un ricambio di ceto politico, che anche con un PD ridotto ai minimi termini garantirebbe rendite interne di posizione non più accettabili, allora non potrebbe che avere ragione lo scrittore palermitano.

Chi guarda o guarderebbe alla sinistra non potrebbe più accettarlo.

*gli autori fanno parte rispettivamente del circolo Pd Guido Faletra di Caltanissetta e circolo Pd F.lli Cervi di Milano
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Carlo Vagginelli e Corrado Angione