Mario Alberto Pedranzini

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Tratto da “ Banchieri “ di Beppe Ghisolfi – ARAGNO Editore
Mario Alberto Pedranzini
A chi aveva l’ardire di chiedere a Enrico Cuccia: «Come è che si diventa banchiere?», il dominus di Mediobanca era solito rispondere «È una chiamata, una predestinazione». Forse, ancora una volta, il grande banchiere aveva ragione, ed ecco il perché. Fin dall’infanzia vedevo il mio futuro come medico, di condotta per l’esattezza, affascinato da tale nobile professione. Ma poiché la scelta del liceo, allora necessario per poter intraprendere quegli studi, non assicurava adeguata sostenibilità economica da parte dei miei genitori, optai, come spesso si usava all’epoca, per il conseguimento di un diploma tecnico, rassicurante tappa intermedia, che non precludeva sbocchi, ancorché diversi ma pur sempre appaganti culturalmente e in prospettiva di un decoroso impiego. Tra le aspettative giovanili, come detto, non c’era certo il pensiero di fare il banchiere ma, come ebbe a scrivere Marcel Proust: «Non riusciamo a cambiare le cose secondo il nostro desiderio, ma gradualmente il nostro desiderio cambia». Perché ciò accada è però necessario un evento, una persona. Nel mio caso ci fu una persona: l’indimenticabile Presidente della “mia” banca, la Popolare di Sondrio, Piero Melazzini, il quale mi volle co- me suo personale collaboratore. Fu una collaborazione stretta, intensa e lunga. Lui il Direttore Generale, prima, e il Presidente, dopo, della Popolare di Sondrio, un banchiere già affermato, conosciuto e unanimemente stimato, un maestro, prima di tutto, di vita. Io un giovane, inesperto, fresco di laurea, un semplice dipendente da poco entrato in banca che si affacciava al mondo del lavoro senza grandi ambizioni e senza avere ancora chiaro quale sarebbe stato il proprio iter professionale. Il giorno in cui venni convocato in Banca Popolare fu proprio Piero Melazzini che in pochi minuti, con una vigorosa stretta di mano, mi diede l’immediata disponibilità all’assunzione. Non mi indicò un percorso di carriera, ma si limitò a complimentarsi per il mio curricolo scolastico aggiungendo che in banca c’era spazio per chi aveva voglia di lavorare perché, mi disse, «qui si lavora sodo». La sua autorevolezza spazzò via ogni mia esitazione a mettermi in gioco. A onor del vero, qualche riflessione la feci, anche perché, allora come ora, un laureato, meglio se a pieni voti e con lode, aveva numerose possibilità di trovare occupazione. Influì, nella decisione, l’averne parlato con i miei genitori durante la cena a seguire. Ansiosi di conoscere l’esito del colloquio, senza minimamente interferire, in cuor loro orgogliosi, si limitarono a dirmi che, qualsiasi fosse stata la mia scelta, dovevo innanzitutto esprimere gratitudine per l’offerta ricevuta, quindi dovevo valutare tenendo conto che “la Popolare è una buona banca, esiste da un secolo, è conosciuta e apprezzata. Il Direttore Generale non lo conosciamo, ma se ne sente parlare bene. Non è una banca grande, però ciò a volte non è tutto. In ogni caso non bisogna mai scartare a priori. Si può provare e poi, se piace, bene, diversamente devi avere il coraggio di cambiare. Non c’è nulla di peggio che fare un lavoro che non ti appassiona”. La conferma della bontà della scelta che feci accettando venne, per me, negli anni seguenti. L’impegno non si è mai affievolito, così come la consapevolezza di concorrere insieme a tutti alla crescita dell’azienda, della quale fin da subito, grazie a quelle parole e alla persona che le pronunciò, mi sentii pienamente parte. Allora era Presidente della Banca il compianto conte avvocato Annibale Caccia Dominioni, del quale mi vengono alla mente lo stile e il costante impegno nel promuovere e ricercare condivisione sui progetti meritevoli per la causa del bene comune, riguardassero la banca o la pubblica amministrazione, cui aveva dato il proprio contributo con spirito di servizio. Il conte, milanese di nascita, sapeva cogliere il “buono” della gente di montagna e, sulla scorta del pensiero del grande statista Ezio Vanoni, operava al fine di esaltarne le qualità, tra cui l’operosità e l’impegno per il miglioramento delle condizioni di vita. Era questa la principale funzione della banca. “Se non è così – era il suo motto – qual è la ragione della sua esistenza?”.
Rammento, come fosse ieri, che il giorno prima di portare in Consiglio di Amministrazione la mia nomina a Direttore Generale, durante una colazione nella sua bella residenza milanese di piazza Sant’Ambrogio, parlando della fondazione dell’istituto, 4 marzo 1871, fece alcune considerazioni, concludendo: “La Banca ha una buona reputazione. Come sai, noi viviamo di fiducia. Abbiamo speso tanti anni per meritarcela; basta poco per distruggerla! Occorre prudenza. Sono convinto che tu farai bene, ma ricordati queste cose e non dimenticarti mai di metterle nella testa dei tuoi collaboratori”. Ho sempre presente il binomio “conte Caccia Dominioni- Melazzini”, lungimirante Presidente il primo, instancabile Direttore Generale il secondo, ingrediente indispensabile per il successo aziendale, se associato a una governance fatta di Consiglieri “indipendenti”. Oggi, sulla scorta pure di episodi incresciosi che hanno coinvolto il sistema bancario, la governance costituisce un aspetto qualificante nella valutazione di ogni azienda bancaria. Quando ero fresco di studi, avevo affrontato la sostenibilità di una governance cooperativa, una testa un voto, in ambito bancario. La risposta l’ho trovata facendo mente locale sulla composizione del Consiglio, costituito da persone di varia estrazione, indipendenti e, in quanto tali, prive di interessi personali. Ora, nel nuovo contesto regolamentare, mi sovvengono le linee guida, che sono state tramandate oralmente, ma è come fossero scolpite nella pietra: “Si può scrivere di tutto – si introducevano allora, per opera della consulenza, i primi codici etici a uso delle banche –, ma ciò che conta è l’onestà; occorre essere onesti con se stessi e con gli altri. Questa è la prima regola. La verità premia e ti rende sereno quando devi rendicontare!”. Chi sia stato e cosa abbia fatto il cavaliere del lavoro Piero Melazzini in una lunga ed esemplare carriera per la sua gente, per la comunità alla quale apparteneva e per una terra con la quale non allentò mai il legame di nascita è cosa nota ed è stata giustamente e in più occasioni ricordata. È per me, però, importante ricordare ancora le qualità morali, umane e professionali di una Persona il cui incontro, senza dubbio, ha profondamente e interamente segnato la mia vita professionale. Uomo semplice, di una semplicità che, nutrendosi del silenzio e del tempo, diventa nobile grandezza e che lo portava ad affermare che «per amministrare una banca non bisogna essere dei fenomeni, ma persone normali, riservate, pulite, comportarsi con equilibrio e buon senso, rispettare e farsi rispettare». Un’intera vita dedicata alla Popolare di Sondrio nella quale era entrato nel 1951 all’età di 21 anni dopo aver conseguito il diploma di ragioniere. Di lui ho sempre ammirato, e spero di aver imparato, l’importanza dello spirito di servizio, della ricerca del bene della banca che non è mai un bene di carattere personale, ma è sempre e comunque il bene della collettività nel senso più ampio. È questo, penso, il più autentico e importante tra i principi fondanti di una banca popolare cooperativa. Da buon pater familias, Piero Melazzini sapeva trasmettere con entusiasmo principi umani e religiosi in maniera discreta attraverso l’esempio e così, ogni giorno, nella pratica, riusciva a infondere voglia di fare e di fare bene. Galantuomo, sapiente e severo con sé stesso sapeva ascoltare e prestare attenzione al mondo che lo circondava e al suo mondo, che era il mondo della sua terra e della sua Banca. Aveva una grande lungimiranza e la capacità di lasciarsi incuriosire e aprirsi al nuovo. Il suo motto era «Il mondo cambia e noi dobbiamo adeguarci; ma sempre con buon senso, lavorando onestamente. E poi, chi vivrà vedrà, affidandoci al buon Dio». Un motto che è diventato, nel corso del tempo, un programma di vita al quale mi sono attenuto e che ho provato a fare mio. Io, nato l’11 giugno del 1950 nell’Alta Valtellina, a Bormio per la precisione, un comune a 1.225 metri sul livello del mare con poco più di quattromila abitanti, dove ho la residenza e trascorro periodi distensivi. Una terra nella quale le mie radici sono ben salde e nella quale ho i miei affetti, le mie passioni, insomma, una vita intera. In particolare mio padre Arturo, guida alpina, a sua volta discendente da alpinisti, al pari di mio nonno materno, con cui ho avuto il piacere di camminare sui sentieri dello Stelvio, tornando sempre con qualche frutto della natura (erbe aromatiche, stelle alpine…), mi ha trasmesso l’amore per la montagna e la sua variegata bellezza, e i valori del rispetto della natura. Una passione, quella per la montagna, che mi ha sempre accompagnato e mi accompagna tuttora. Andar per monti, nella più ampia accezione della proposizione, mi ha dato modo di esprimermi e di misurarmi, di sentirmi appagato, una volta in cima al Gran Zebrù o percorse le tredici cime del Gruppo Ortles-Cevedale, tanto quanto dopo una camminata nei boschi, in solitaria oppure in compagnia di amici. Posso dire di aver assimilato i valori del CAI-Club Alpino Italiano, della cui sezione di Bormio sono stato Presidente, prodigandomi per trasferire nei giovani i principi ispiratori di tale prestigiosa istituzione. Da mio padre ho appreso che la montagna va accarezzata e mai sfidata, che la cima dev’essere raggiunta all’alba e non al tramonto, che in cordata devi pensare a te stesso e ai compagni, che la scalata non è mai un azzardo, ma un rischio ben calcolato che si tramuta in gioia. Sono insegnamenti di una persona di esperienza, vissuta in un suggestivo ambito montano. È proprio il caso di di- re che l’ambiente, quello naturale, il contesto del paese, nel senso del borgo, fatto di tre “S” – semplicità, solida- rietà, sussidiarietà – e ancor prima quello familiare, sono determinanti nella formazione del carattere. Vivere al confine con la Svizzera, e storicamente l’impero austro- ungarico, ha avuto un’influenza determinante per la mia apertura mentale e il confronto con culture diverse. Mi viene naturale parlare dell’attività svolta dalla famiglia Berbenni, quella di mia madre, come concessionari del servizio postale verso il nord, che assicurava il trasporto giornaliero dei plichi da Bormio all’ufficio postale dello Stelvio, estate e inverno, con il sole, ma pure con la tormenta e le relative difficoltà. La vicinanza con le comunità e le rispettive lingue, la locale e la tedesca, ha certamente forgiato la cultura dei rispettivi abitanti.
Negli anni della mia infanzia, che ho trascorso a Santa Caterina Valfurva, ho imparato come la tenacia e i sacrifici, tipici del montanaro, associati alla riflessione e al senso del limite, siano importanti e preparino a superare le difficoltà della vita. Cresciuto in una famiglia di piccoli imprenditori del settore dell’ospitalità – i miei genitori gestivano un albergo e un’edicola – ho appreso inconsciamente, e per questo sono riconoscente in particolare a mia madre Diana che portava con sé esperienze di lavoro qualificanti, fatte nei grandi alberghi anche della Svizzera, altri elementi di gestione, che mi sono poi tornati utili nel futuro lavoro. A me e a mia sorella Luisella toccavano i lavori più umili, vigeva la regola che, al pari del “personale”, eravamo al servizio del cliente: trattare bene il cliente voleva e vuol dire farlo tornare. A quei tempi le mance avevano un significato, anche per il quantum: quando le ricevevamo, le mettevamo nella cassa comune. Il banco dei giornali ha rappresentato per me la prima esperienza di cassiere, che, nel pensar comune, è per antonomasia l’attività delle banche. Terminati gli studi all’Istituto Tecnico A. De Simoni di Sondrio, il mio insegnante di ragioneria, professor Miles Emilio Negri (che più avanti ha ricoperto per alcuni anni l’Ufficio di Vice Presidente della “Sondrio”) mi indicò la strada dell’università, consigliando “l’Università Commerciale Luigi Bocconi di Milano”. Proprio presso la stessa mi iscrissi. Conseguita la laurea in Economia e Commercio, relatore il professor Roberto Ruozi, nella mia Valtellina, che in realtà non avevo mai lasciato, sono tornato. L’Università Bocconi e l’esperienza vissuta in via Bocconi n. 12, “il Pensionato”, hanno costituito un importante momento formativo per la profondità degli studi e la costruzione del libero pensiero, unendo alle discipline prettamente economiche quelle umanistiche, e approfondendo gli aspetti finanziari e quantitativi in una logica innovativa. Ho imparato che alla visione strategica si debbono associare la pragmaticità della microeconomia e l’invito a confrontarsi, con l’umiltà del sapere. A 27 anni ho iniziato a lavorare come dipendente alla Popolare di Sondrio: era il 3 gennaio del 1977. Dopo esperienze diversificate in sede centrale e presso la sede di Milano, Melazzini, con mia grande sorpresa e onore, mi chiama in Direzione Generale, facendo di me un suo stretto collaboratore. Vent’anni più tardi, il 3 aprile del 1997, di quella Banca divento il Direttore Genera- le e, sul calare del 2012, Consigliere Delegato, incarichi che ricopro oggi insieme a quello di Presidente del Consiglio di Amministrazione della Banca Popolare di Sondrio (SUISSE) SA di Lugano, di Vice Presidente di Factorit e di Consigliere di Banca della Nuova Terra. Tutte sono parte del Gruppo bancario Banca Popolare di Sondrio. In questi quarant’anni di carriera, tutta interna alla Popolare di Sondrio, ho ricoperto, per periodi più o meno lunghi, il ruolo di Consigliere  d’Amministrazione di diverse società e gruppi: la Factorit (1997-2005), la Centrosim (1997-2011), la Banca per il Leasing-Italea- se (2001-2007), Arca Merchant (2002-2005), Etica Sgr (2002-2011), la Banca della Nuova Terra (2004-2012), Si Holding (2007-2010), CartaSi (2010-2012), Arca Sgr (2011-2012). Si tratta di realtà legate alla BPS e al mondo del credito popolare. Sono convinto che l’esperienza acquisita sul terreno – e nella mia ho imparato anche quello che non si deve fare – rappresenti un patrimonio collettivo e che come tale debba essere messa a disposizione e condivisa, così come deve esserci una collettivizzazione dei problemi e delle idee per la loro soluzione. Per questo mi sono reso sempre disponibile a dare il mio contributo nelle organizzazioni nazionali e internazionali della Categoria delle Popolari e del sistema bancario nel suo complesso. Per questo sono stato Consigliere dell’Istituto Centrale delle Banche Popolari Italiane. Sono Consigliere d’Amministrazione del Co.Ba.Po., il Consorzio Banche Popolari; membro del Comitato Esecutivo della Confederazione Internazionale delle Banche Popolari, il CIBP; Consigliere e Vicepresidente dell’Associazione Nazionale fra le Banche Popolari; Consigliere dell’ABI, l’Associazione Bancaria Italiana, del cui Comitato Esecutivo faccio pure parte; componente del Consiglio Direttivo della FeBAF, la Federazione delle Banche, delle Assicurazioni e della Finanza. Aggiungo che sono Consigliere di Amministrazione dello IEO-Istituto Europeo di Oncologia e che ho collaborato e collaboro con la SEV-Società Economica Valtellinese, ideata e promossa dal conterraneo professor Alberto Quadrio Curzio.
Come emerge da questo breve excursus i miei quarant’anni di attività professionale sono strettamente legati al mondo delle banche, delle Banche popolari, e in primis della Popolare di Sondrio. Il denominatore comune, che lega i diversi incarichi e le diverse esperienze, è il legame con il territorio. Un legame forte e importante. È il legame della mia banca con il suo territorio. Ed è anche il legame di ogni dirigente e ogni dipendente con il proprio territorio. Naturalmente, quando faccio riferimento al territorio, penso a una determinata comunità che in quel territorio ha la propria storia, la propria tradizione, la propria esistenza, il proprio futuro. Con mia grande sorpresa, quando mi sono affacciato a Milano, nella sede di Via Santa Maria Fulcorina, dopo esperienze nella provincia di Sondrio, ho riscontrato che i clienti della città apprezzavano la genuinità di comportamento dei nostri collaboratori, calati in un contesto del tutto nuovo. Allora come ora fa premio poter instaurare un colloquio personale con l’uomo della banca, avere un interlocutore pronto ad ascoltare. Ed è questa la filosofia ispiratrice della nostra crescita: esportare il nostro modello, essere noi stessi anche al di fuori del contesto in cui siamo nati e cresciuti, farci apprezzare per gli aspet- ti distintivi. Dobbiamo essere grati ai tanti collaboratori che hanno accettato la sfida di uscire dalla Valle a fare nuove esperienze. È stato un arricchimento personale per i singoli e di grande valore aggiunto per la banca. Tali “spostamenti” hanno dato la possibilità a tanti giovani delle località di nuovo insediamento di inserirsi nella nostra organizzazione con facilità, di condividerne la filosofia aziendale e di far parte della squadra da subito. Nel bene e nel male, come si suol dire, abbiamo dato vita al nostro modello di banca, controcorrente rispetto a quelli allora in vigore ispirati dalle società di consulenza, ma efficace ed efficiente. E così abbiamo affrontato il mercato elvetico, fondando a Lugano il 3 maggio 1995 la Banca Popolare di Sondrio (SUISSE) SA, mettendoci la nostra insegna e subentrando – si fa per dire – alla Schweizerische Volksbank, incorporata in una delle grandi banche della Confederazione. Siamo andati in punta di piedi e siamo stati bene accolti, divenendo parte integrante di quelle comunità. Ora la controllata “SUISSE” opera con 19 sportelli, dislocati in sette Cantoni, più uno sportello virtuale a Lugano e una succursale a Monaco nell’omonimo Principato. In fondo, la spinta delle comunità a unirsi per cooperare è il frutto della necessità di trovare soluzioni a problemi che, se affrontati individualmente, non sarebbe possibile risolvere. Per questo la cooperazione, la creazione cioè di strutture organizzate e finalizzate alla soluzione dei problemi dell’economia, è un modello che fa parte della storia dell’uomo fin dalla sua origine. Del variegato mondo della cooperazione fa parte anche la cooperazione bancaria mondiale e di essa quella del credito popolare. Una realtà che, soprattutto grazie alla capacità di affrontare i problemi che negli ultimi anni hanno caratterizzato l’economia mondiale colpita da una crisi senza precedenti, conta oggi 205 mila istituti con 750 milioni di clienti e 480 milioni di soci, 9 mila miliardi di euro raccolti e 7.500 miliardi impiegati. Anche la Banca Popolare di Sondrio è cresciuta, tant’è che, quando sono entrato in banca io, erano una ventina le dipendenze. Un modello, pertanto, basato sul legame tra una collettività di persone tra loro e il proprio territorio e che trova riscontro e vitalità in tutto il mondo. Un modello della cui bontà e necessità per l’economia la Banca Popolare di Sondrio è stata sempre convinta, tanto da farne un elemento fortemente caratterizzante. Non è, dunque, casuale che tutta la mia carriera si sia svolta all’interno della Popolare di Sondrio come non è un caso che i manager del Gruppo di norma provengono dall’interno e casi di inserimenti di persone provenienti dall’esterno sono pochi. Lo sviluppo per linee interne rappresenta un aspetto strategico e competitivo. I clienti, infatti, più che i singoli dipendenti con i quali entrano in relazione, hanno un rapporto stretto con l’istituzione. Se un Direttore di filiale va via e viene sostituito con un altro, per i clienti non si tratta di un fatto traumatico, perché tutti i dipendenti della Banca Popolare di Sondrio sono accomunati da una cultura comune, da valori simili, da un approccio al cliente condiviso. Il cliente trova nel nuovo Direttore una persona che ha uno stile comportamentale in sintonia con quello di chi lo precedeva. Questo avviene a ogni livello con l’idea che la condivisione sia un necessario fattore di successo. I clienti che conosco io, li conosce anche il mio vice. Il nostro obiettivo è quello di cercare sempre di condividere le relazioni con i clienti: ciascuno di noi deve conoscere quanto accade in azienda. Conseguente a questa logica è anche la scelta di riservare una grande attenzione alla selezione e alla formazione del personale, massima parte del quale proviene dalle zone presidiate, con un privilegio per la Valtellina e la Valchiavenna. Un’attenzione della quale io stesso ho potuto beneficiare e continuo a considerare un punto fermo nella direzione della banca. Nella Banca Popolare di Sondrio, il personale viene scelto tenendo conto non solo delle competenze e della preparazione, ma anche del modo in cui si pone e si propone, dei valori che possiede. I colloqui sono più d’uno e le pratiche, nell’ultima fase, vengono esaminate con molta attenzione anche dal vertice aziendale. Un impegno di tempo notevole, ma in linea con l’importanza che attribuiamo ai candidati, alla valutazione delle persone che seguiamo nel loro percorso evolutivo, discutendo pure tutti i trasferimenti e i nuovi incarichi. Conosciamo personalmente i circa 3.000 dipendenti. Consideriamo poi un elemento di valorizzazione coinvolgere inizialmente i nuovi assunti nelle attività anche di sportello. Posso affermarlo avendolo sperimentato di persona, e quindi so bene che alla cassa non solo c’è molto da imparare per capire i problemi operativi e quotidiani della banca, ma è questo il primo e più immediato contatto con i clienti, con le loro richieste, esigenze, con i loro problemi. Non è attività semplice quella della selezione del personale, soprattutto in un’epoca nella quale la formazione culturale e professionale viene poco considerata e sulla quale troppo poco si investe. Ma proprio per questo continuiamo nella tradizione di andare alla fonte a prendere nota dei nomi degli studenti che alla maturità o alla laurea conseguono i voti migliori: da noi vige la meritocrazia. Nel legame con il territorio e con la propria comunità di appartenenza ritrovo l’amore per il lavoro. La strategia vincente che ha reso grande il nostro Gruppo, la nostra famiglia, è stata quella di aver saputo coniugare il coinvolgimento della squadra con la capacità di guardare avanti con la dovuta risolutezza, avendo sempre chiara la meta. Ma il coinvolgimento di ognuno di noi è stato possibile grazie alla capacità di ciascuno di amare il proprio lavoro e svolgerlo con senso del dovere, il che significa non essere mai indifferenti, dedicare cure e attenzione a ogni aspetto delle proprie mansioni con senso di responsabilità per comprenderne l’essenza e i valori, imparando a essere esigenti, in primis, con sé stessi. Cura e attenzione per ogni aspetto. Oggi, alla luce dell’esperienza, posso affermare che un Direttore Generale deve sempre dedicare una parte della giornata a riflettere, a produrre idee per essere sempre propositivo. E la giornata è sempre piena perché il Direttore, in una Banca di queste dimensioni, deve occuparsi di tante cose. La cultura della Banca è quella di occuparsi anche del particolare, che consente poi di trasferire la cultura della qualità e dell’efficienza nell’intera struttura. La cura delle piccole cose permette di ottenere benefici importanti, perché il processo di crescita si realizza proprio ponendo mattone su mattone e avendo chiaro che ogni mattone ha una funzione necessaria per la tenuta dell’intera costruzione. Questo vale per la costruzione di una banca che così può diventare una “grande banca”, come è stato per la Popolare di Sondrio, pur non essendo una “banca grande”; e vale altresì per il processo di maturazione non solo professionale, ma anche umano e civico di ognuno di noi, come di certo è valso per me. È così che la BPS è cresciuta. Oggi le unità operative del Gruppo sono 500. La Banca occupa una posizione di rilievo nel sistema dei pagamenti e in ambito internazionale, frutto della costante ricerca, volta a occupare nuovi spazi di mercato, un orto coltivato e innaffiato negli anni dalla passione e professionalità di tanti collaboratori. In questa logica di “gioco di squadra” vanno inseriti anche alcuni premi. Nel 2011 “MF Global Awards” ci ha aggiudicato il premio “Creatori di Valore” come “Miglior Banca Popolare” per le performance patrimoniali e di efficienza; l’anno successivo per essere la Banca che nella Regione Lombardia ha saputo realizzare le migliori performance patrimoniali e di efficienza; nel 2013 per essere al primo posto fra le aziende medie nella classifica nazionale del rating Lombard. Nel 2016, durante il Future Bancassurance Awards, evento che ha celebrato le eccellenze nel mercato della Bancassicurazione in Italia, sono stato premiato «per lo sviluppo dato negli anni al business della Bancassurance sia nel Vita che nei Dan- ni». La stessa giuria ha insignito la Banca Popolare di Sondrio del premio «per la capacità di vendita dei pro- dotti assicurativi danni non standardizzati». La linea guida che mi ha sempre orientato nell’operare e che ha orientato la “squadra” attiene al rigoroso rispetto dei ruoli. La Banca è impresa e istituzione, e proprio per questo è sottoposta a vigilanza da più authorities: in primis dalla Banca d’Italia e ora dalla BCE. Istituzione, perché svolge attività creditizia, che trova fondamento nel risparmio, valore consacrato dalla Costituzione. Impresa, perché deve mettere a frutto quel risparmio, impiegandolo a favore dell’economia reale, e quindi assicurare l’equo compenso ai cosiddetti stakeholders. Questa premessa, per significare il ruolo di servizio di chi ha accettato di mettere a disposizione le proprie energie nell’interesse della Banca: dal Consiglio di Amministrazione alla Direzione Generale, ai vari impiegati e così via. La Banca è esclusivamente dei Soci, ai quali, in sede assembleare, dobbiamo rendere conto, mettendoci la faccia. Non posso non ricordare il passaggio della mia Banca sotto la vigilanza unica della Banca Centrale Europea, avvenuto il 4 novembre 2014. Il fatto mi inorgoglisce non poco, pure perché la “Sondrio”, che non era (e non è) un’azienda di eccessive dimensioni, è stata una delle 14 istituzioni creditizie italiane, ricomprese nell’esiguo gruppo di 130 banche dell’Unione Europea, a passare sotto la vigilanza della BCE. Per la mia istituzione l’avvenuto cambiamento continua a essere un onore, che dà prestigio e avvalora il modo con cui lavoriamo, un impegno collettivo, grazie al quale riusciamo a stare al passo con i tempi. Continuerò a “curare” la mia Banca – cui ho dato, ottenendo in contropartita soddisfazione per il lavoro svolto e i risultati conseguiti –, con l’ottimismo di chi vede nel domani il filo conduttore. Va da sé che un po’ di buona sorte non nuoce. Resta in me la convinzione che non tutto sia globale, così come ritengo che non si possa circoscrivere tutto al locale.
Il nostro, come sistema Paese, è un modello fatto di una microfisica di relazioni di filiera, di pluralità e frammentazione della rappresentanza e della burocrazia amministrativa, nelle quali, naturalmente, si inserisce il mondo del credito. Si può discutere sulla sostenibilità di tale modello di sviluppo, ma la misura della sua efficacia non va ridotta a una semplice questione di “dimensioni”. Va piuttosto trasferita nella capacità di “stare in mezzo” per governare bene il rapporto tra la sfera competitiva globale dei flussi e i particolari assetti produttivi locali. Quello di “stare in mezzo” è il percorso scelto dalla Popolare di Sondrio, con un’espansione calibrata sui territori di prossimità, declinata secondo le vocazioni produttive locali, con una visione aperta al mondo che cambia. La mia Banca è in ciò avvantaggiata dall’appartenenza al territorio lombardo, che le ha consentito di acquisire e incorporare quel patrimonio di saperi e di capitale, elementi necessari a comprendere e fronteggiare, facendole proprie, le strategie evolutive, atte, per l’appunto, a continuare a “stare in mezzo”, con un occhio al presente e l’altro rivolto al futuro. I valori, i convincimenti di fondo ci aiutano a capire come non solo nelle situazioni favorevoli, ma anche nei periodi difficili, ci sia una linea guida che tutti possono seguire. Il senso di appartenenza e la convergenza su obiettivi strategici e tattici rendono più forti nelle varie situazioni. Nelle circostanze più difficili, poi, quello che dà più forza è la consapevolezza che buon governo, etica e senso di responsabilità emergono sempre.