Meloni, l’arroganza che nuoce alla politica

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Cade a Cagliari la maschera di un centrodestra unito comunque vada, nonostante la palese insofferenza reciproca dei tre leader, vincente con qualunque candidato, in una intramontabile e radiosa luna di miele meloniana.

S’infrange sulle coste della Sardegna la presunzione di onnipotenza di una premier che ha pensato di poter trasformare davvero in oro qualunque cosa toccasse. Perfino uno dei peggiori sindaci d’Italia.

Giorgia Meloni paga l’ingenua convinzione di essere il nuovo Silvio Berlusconi. Colui che era capace di far eleggere governatore il figlio del suo amico commercialista Ugo Cappellacci. Ma erano altri tempi, era il 2009, altre leadership, altro carisma.

Rewind. Nelle elezioni di domenica 25 febbraio perde un destra-centro mai così in rotta al suo interno, in questi 17 mesi di governo. In una Regione in cui la coalizione ha dato pessima prova di sé.

Christian Solinas, vessillo leghista ma di matrice autonomista, è stato uno dei peggiori governatori che si ricordino in quelle latitudini, precipitato in fondo a una sfilza di classifiche e bocciato prima ancora di essere ricandidato (dal solo Salvini). La condanna politica, nel suo caso, è arrivata ben prima delle inchieste, che poi faranno il loro corso, nella legittima presunzione d’innocenza.
Il destra-centro perde poi perché per puro sentimento di vendetta, con molta probabilità, 5.500 elettori di quell’area — ed è lecito sospettare che siano stati simpatizzanti del Partito sardo d’Azione e della stessa Lega — hanno voltato le spalle al candidato imposto da Fratelli d’Italia.

Perde, ancora, perché la Lega è crollata alle percentuali pre-salviniane del 3,8 per cento, in una Regione che finora il partito di Salvini aveva governato.

Presagio infausto per il vicepremier e carico dei peggiori auspici, in vista delle Europee di giugno e di una successiva e sempre più probabile resa dei conti interna al Carroccio. Perde, infine, perché — come raccontava Giorgio Mulé in una intervista a questo giornale — «non si vince imponendo nomi». In quel caso, anche gli alleati moderati di Forza Italia possono iniziare a ricredersi.

Ancor più se il nome imposto è quello di un amministratore, il sindaco di Cagliari Paolo Truzzu, detestato e malvisto a tal punto dai suoi concittadini da fare del capoluogo l’epicentro della imprevedibile vittoria di Alessandra Todde.

Il fatto è che se commetti un errore così clamoroso, rompendo con gli alleati, riducendoli a vassalli, schiacciandoli con un tuo uomo, neanche lontanamente tra i tuoi migliori, allora vuol dire che hai perso lucidità, che la tua leadership si è annebbiata, che la tua supponenza ha prevalso sulla capacità decisionale.

Ancor più perché se non ci fosse stato in campo l’outsider Renato Soru la vittoria del centrosinistra sarebbe stata di una decina di punti di scarto abbondanti, altro che finale al fotofinish.

E qui si viene alla seconda, profonda ragione della disfatta, che travalica la frattura tra i partiti della coalizione. E chiama in causa la stessa premier e non solo perché è lei ad aver cambiato in corsa un candidato incapace con uno fallimentare.

No, Giorgia Meloni è responsabile in quanto presidente del Consiglio di un governo che continua a raccontare la storiella di un’economia in ripresa, con un tasso di disoccupazione ai minimi storici, di un Paese il cui futuro, grazie ai fondi del Pnrr (solo per metà finora investiti), sarà raggiante.

Succede però che i sardi e un po’ tutti gli italiani si imbattono quotidianamente con un’altra realtà diversa, alle casse dei supermercati come alle pompe di benzina. L’economia reale sta paurosamente cozzando con quella programmata. E questo alle urne si paga.

Ancora, Giorgia Meloni è una leader che appare al cospetto di amici e avversari sempre più arrogante. Nervosa. Distruttiva anziché propositiva. E l’arroganza in politica non perdona, ha sempre castigato tutti: Matteo Renzi e Matteo Salvini sono solo le due ultime vittime illustri.

Carmelo Lopapa