Oggi una bella e seria discussione alla Direzione del Pd

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Se vi va vi appiccico qui sotto le cose che ho detto.

Buona serata e un abbraccio

“Penso che la relazione di Nicola abbia fotografato bene le condizioni della ripresa.

In cima a tutto c’è la riduzione del danno, il contenimento dei contagi e la garanzia di una riapertura – la più ordinata possibile – delle scuole.

I sette traguardi per l’impiego delle risorse europee corrispondono alle priorità del paese e saranno il banco di prova per la tenuta della maggioranza.

In questa cornice l’esito delle regionali avrà inevitabilmente una lettura politica: e questo persino al netto delle ricadute immediate sul governo.

Una cosa però possiamo dirla anche prima del 21 settembre.

Ed è che la mancata alleanza anche in situazioni dove sarebbe stato di puro buon senso chiudere un accordo ha reso chiaro come vi sia una forza – la nostra – impegnata a costruire una barriera alle destre e chi – come 5Stelle e Italia Viva – prosegue nella strategia di colpire noi più che gli avversari veri.

In questo senso la campagna di Di Maio in Puglia – persino al netto della scelta compiuta in quella regione dal suo movimento – non è un dettaglio, né di stile né di sostanza.

Nonostante tutto io credo che ci siano le condizioni per un risultato positivo, in grado di allontanare gli scenari più cupi evocati da fuori e dentro le nostre fila.

Detto ciò sono d’accordo con la scelta, dopo il 21, di affrancare il Pd da vincoli che per prime le altre forze della maggioranza non hanno rispettato.

Lo dico perché credo giusto avere tra noi un dibattito serio, trasparente, sulla politica dell’ultimo anno e sull’agenda del dopo.

Credo che la stessa lettera del Segretario a Repubblica meriti questa risposta anche per rispetto alla sincerità dei toni e degli argomenti che lui ha utilizzato.

In quel testo vi sono delle verità oggettive a partire dal sostegno quasi univoco che un anno fa ci convinse a dare vita al Conte bis.

Che questo chiarimento debba passare da un congresso o meno, e di quale genere, sarà Nicola a proporlo.

Ciò che anch’io trovo sbagliato è un confronto sulla strategia – nelle alleanze e non solo – che si consumi tra retroscena o azioni tese più che altro a indebolire in questa fase la nostra iniziativa nel governo e nel paese.

Sul punto del referendum.

Alcune diversità di giudizio sono emerse e vanno valutate senza drammi.

Ho apprezzato il tono rispettoso della relazione nei confronti delle motivazioni che spingono alcuni, anche tra noi, verso un voto contrario.

Allo stesso tempo prendo atto di una linea espressa pubblicamente da Nicola e che in questo organismo pare raccogliere un consenso maggioritario.

Dal mio punto di vista mi permetto di suggerire alcune cautele e una sola nota sul merito.

La prima è slegare la natura di questa discussione dal destino del governo.

Sappiamo tutti come e perché siamo giunti a esprimere un voto positivo al taglio di deputati e senatori solo nella quarta lettura e dopo tre bocciature.

Senza il suicidio politico di Salvini e la nascita imprevista di questo governo noi ragionevolmente avremmo spinto quella contrarietà sino al voto finale.

Detto ciò la politica non è mai un campo di intenzioni astratte, ma risponde sempre a processi che si fondano su azioni e conseguenze.

Quindi è probabile che senza questo cambio di posizione un governo che ha posto in sicurezza il paese non sarebbe nato.

Allo stesso modo io capisco la convinzione di quanti – potrei citare figure autorevoli, da ultimo Enzo Cheli – ritengono la bocciatura di questo taglio come l’epitaffio inevitabile – i titoli di coda – sulla possibilità di una qualunque futura riforma e confidano che la scossa dell’albero possa generare altri buoni frutti.

Personalmente non credo che questo spirito volitivo basti a compensare i dubbi sulle ricadute di un taglio lineare e privo ad oggi di un assetto istituzionale coerente.

Noi diciamo che i correttivi previsti servono appunto a correggere evidenti storture e disequilibri.

Ancora una volta lo si può leggere come un esercizio di realismo.

Ma temo che neppure questi buoni propositi cancellino gli argomenti, a mio avviso ineccepibili, usati a più riprese da nostri parlamentari oggi schierati per il Sì e che giudicavano questa cesoia una riforma sbagliata e senz’altra logica se non un atto di mera propaganda.

Ora, qui non c’è il tempo per richiamare i singoli punti, ma uno credo si debba almeno accennare.

Lo dico naturalmente dal mio punto di vista.

Il tema non è soltanto la carica antipolitica e antiparlamentare che ispira l’operazione.

Neanche il capitolo del risparmio, per altro assai modesto.

Aggiungo, nemmeno lo squilibrio numerico nel rapporto tra elettori e rappresentanti.

Questi argomenti esistono.

Ciascuno porta in sé una quota di verità.

Il nodo di fondo però è proprio nella cultura istituzionale che sorregge l’impianto della riforma.

Da un lato perché spezza in modo del tutto irrazionale il legame tra la riduzione del numero dei parlamentari e una revisione del bicameralismo con gli effetti e le disfunzioni che sappiamo.

In questo senso, al di là della tempistica, la proposta Violante non rimuove il carattere di una cambiale in bianco: una sorta di “pagherò”.

Della serie intanto tagliamo il Parlamento, poi le altre riforme arriveranno in un processo dal basso e con la raccolta di firme in calce a una legge di iniziativa popolare.

Ma dall’altro per una ragione persino più profonda che attiene al senso stesso della rappresentanza e del Parlamento.

Su questo punto l’argomento che dice, “Voi del No sbagliate perché oggi la competenza legislativa è anche delle Regioni e del Parlamento europeo, istituzioni che al varo della Costituzione non c’erano”, pare a me non risolvere il tema di fondo che non è solo la velocità o l’ampiezza del procedimento legislativo.

Cioè quell’argomento non risolve il tema della rappresentanza per una ragione.

Perché da oltre vent’anni il dibattito sulle riforme verte sempre e quasi esclusivamente sulla governabilità.

Il punto è che senza una rappresentanza effettiva i poteri costituiti perdono la legittimazione a governare in nome del popolo.

Percorrendo quella via può darsi che si raggiunga il massimo della governabilità, ma con un rischio: che nel segno dell’efficienza si giunga a sacrificare in parte la qualità della democrazia.

Del resto la Costituzione del ‘48 non mitizza un popolo generico.

Come spiega Gaetano Azzariti il cuore della nostra democrazia riguarda il modo in cui si forma la volontà popolare e le modalità attraverso cui quella si traduce in una precisa volontà politica.

La rappresentanza ha questa funzione fondamentale.

Il problema è che nel corso degli anni questo principio ha subito lesioni profonde (che hanno avuto cause precise e rispetto alle quali noi non siamo esenti da colpe).

Cito solamente i titoli.

La tendenza a una liquefazione dei partiti.

Una esasperazione della leadership avanzata assieme al primato dell’Esecutivo nella produzione legislativa.

E soprattutto una perdita di etica civica e collettiva (perché la richiesta dei 600 euro purtroppo ha delle radici e non si può liquidare come una cinquina di mariuoli).

L’insieme di questi processi (compresa la cancellazione di ogni finanziamento pubblico all’attività dei partiti) ha determinato un distacco profondo tra politica e società.

E non ne è venuto del bene.

Allora io chiedo: ci conviene favorire un passo ulteriore in una direzione che ha già mostrato di condurre verso approdi che possono piacere o meno, ma comunque non sono i nostri?

Cioè non corrispondono ai principi, ai valori, che dovrebbero ispirare la nostra funzione nel paese e nelle istituzioni.

In questo senso – e chiudo – io non mi nascondo la realtà.

Capisco perfettamente che in questo nostro tempo interrogare gli italiani sul taglio dei politici è come vendere bistecche a un vegano.

Ma anche per questo, ritengo che fissare un argine – un limite in grado di dare il senso di una ripartenza culturale di fronte alla distruzione di alcuni pilastri del fare democrazia – possa risultare quasi un’opera pia.

Un atto di volontariato civile.

C’è un No – questo volevo dire – che non intende indebolire il governo, tantomeno complicare la vita del Partito.

Tanto più che a sostegno del Sì è schierato l’intero perimetro delle opposizioni e della destra.

C’è un No che si pone come un mattone della ricostruzione di una buona politica.

Quella che rifiuta l’urlo salvifico della semplificazione di processi complessi.

Che riscopre il valore della rappresentanza nel legame che dev’esserci tra i conflitti che vivono nella società e il loro sbocco nelle istituzioni: quindi al di là dei soli aspetti procedurali o numerici.

Quella che prova – almeno prova – a contenere la furia distruttrice contro le culture politiche nel segno di una banalizzazione del discorso pubblico.

Penso che comunque questo passaggio vada a finire – e finirà come tutti sanno – il giorno dopo su questi temi sarà giusto tornare.

Da un lato con l’impegno a garantire un assetto istituzionale che funzioni.

Ma dall’altro con una battaglia culturale che torni ai fondamentali: non lasciare la politica e la democrazia in balia della demagogia perché farlo equivarrebbe a segare il ramo su cui tutte e tutti siamo seduti.

E purtroppo ramo dopo ramo il rischio è di essiccare la pianta.”

Gianni Cuperlo