OGNI ALTO TASSO FINISCE CON L’ESSERE UNA TASSA SUI PIÙ DEBOLI

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La lezione magistrale di Luigi Einaudi, statista ed economista, ripresa dal conterraneo e Banchiere Beppe Ghisolfi nella propria produzione manualistica, trova conferme nelle evidenze economiche, politiche e finanziarie più aggiornate

La scelta secca non può essere tra inflazione e recessione. Lo hanno ribadito pressoché all’unisono, sebbene in contesti diversi, sia il Ministro economico Giancarlo Giorgetti, sia il Presidente dell’ABI Antonio Patuelli, facendo entrambi riferimento alla necessità di una maggiore aderenza delle politiche monetarie di Francoforte, sede della BCE, agli andamenti riflessi nel livello generale dei prezzi: andamenti calanti sul fronte delle quotazioni energetiche, seppure al netto delle incognite connesse al petrolio dopo le decisioni restrittive dei Paesi produttori di oro nero.

Stiamo parlando di tassi: una parola che, applicata al concetto di interesse piuttosto che a quello di inflazione, comporta effetti pratici sui cui meccanismi servirebbe una più incisiva opera di divulgazione delle nozioni di finanza applicata. Perché, diversamente, gli effetti sono quelli di aggiungere debito privato a quello pubblico: uno studio di Temporary manager ha calcolato che l’esposizione debitoria dell’intero sistema delle nostre imprese equivale a un quarto del passivo dello Stato. Numeri impressionanti, che lo diventano ancora di più se a essi sommiamo il peso degli oneri finanziari, in altre parole degli interessi passivi: il costo del denaro dovuto da quanti devono richiedere denaro in prestito non disponendo temporaneamente di sufficiente liquidità propria.

Luigi Einaudi, Governatore della Banca d’Italia fra il 1945 e il 1948 e successivamente primo Presidente eletto della Repubblica Italiana, ebbe a definire l’inflazione post bellica – quante analogie con il periodo che attualmente stiamo vivendo – come una delle più odiose tasse sui poveri, poiché falcidia il potere d’acquisto dei redditi fissi e dei risparmi non investiti.

Però l’inflazione porta con sé, come effetto reattivo, decisioni di politica monetaria che, soprattutto in assenza o in carenza di decisioni di politica fiscale, portano al rincaro di un altro tasso: quello un tempo detto di sconto (poiché è la Banca centrale che sconta le riserve delle banche commerciali al dettaglio incentivando o scoraggiando la circolazione di moneta) e oggi detto di riferimento, poiché ai tassi della BCE si riferiscono necessariamente le successive scelte degli operatori bancari e finanziari nella fissazione delle condizioni a cui ricevere o affidare in prestito il denaro alla clientela finale, a noi.

Se in tempo di bassa inflazione la vera tassa era rappresentata dal livello dello spread, ossia dalla maggiore differenza tra i rendimenti dei BTP italiani e tedeschi, in tempi di alta inflazione, e di spread stabilizzato dalla circostanza che i tassi a zero sono finiti anche per le obbligazioni pubbliche della Germania, occorre attenzionare al massimo la duplice tassa impropria del livello generale dei prezzi e dei tassi di riferimento centrali: soprattutto se il primo resta sopra il due per cento fissato dal trattato europeo di Maastricht e i secondi rimangono oltre l’asticella del 3.

Dir politico Alessandro ZORGNIOTTI