La Banca d’Italia è un istituto di diritto pubblico ma al suo capitale partecipano anche le banche tra cui, appunto, Unicredit e Intesa Sanpaolo.
La maggior parte degli utili della Banca d’Italia vengono versati nella casse dello Stato ma il resto viene suddiviso tra i soci o destinato a riserva.
Secondo l’attuale legge, però, i dividendi si fermano al 3%. Anche nel caso dei due istituti in questione il tetto è fissato al 3% anche se detenengono percentuali di quote maggiori. Il resto confluisce in un’apposita riserva.
La legge (il decreto IMU-Bankitalia del 2013) impone anche di vendere le quote che eccedono il 3% del capitale di Banca d’Italia. Ma i maggiori istituti di credito italiani incontravano alcune difficoltà in queste operazioni perché ai potenziali acquirenti sarebbe stato trasmesso anche il limite del tetto dei dividendi al 3%
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Carlo Messina, che guida Intesa Sanpaolo, ad inizio del mese aveva lamentato la ristrettezza del tetto al 3%. E allora l’amico Draghi, di notte, nella confusione delle centinaia di emendamenti da votare in pochissimo tempo, ne aggiunge uno che alza il tetto dal 3 al 5%. Così, gli amici banchieri, avranno qualche milione in più di dividendi e saranno agevolati nella vendita delle quote diventate più appetibili.
Tutto avviene in una legge di bilancio che ha concesso meno tasse a chi possiede di più, che ha umiliato con una norma inutile gli operai delle multinazionali che potranno sempre essere mandati a casa con facilità, che non ha risolto il problema del caro bollette, non ha previsto sostegni per le imprese in difficoltà, che ha abolito il tetto degli stipendi dei manager pubblici e che ha riempito di mancette i capi corrente dei partiti.