Populismo vs buon senso. Cosa si nasconde dietro i meccanismi che governano alcuni social

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“È molto semplice. Abbiamo disattivato Twitter. Ne siamo rimasti alla larga. Sapevamo che il paese si trovava in uno spazio mentale diverso da quello dei social network”. Queste le parole di un collaboratore di Joe Biden confidate al corrispondente politico di CBS News Ed O’Keefe in merito alla strategia di comunicazione adottata durante la corsa alla Casa Bianca. Il senno del poi gli ha dato ragione. In effetti sono sempre più frequenti i pareri di vari comunicatori politici specie di sinistra che convergono verso un sostanziale abbandono dei social.

Ma per comprendere bene la questione è necessario analizzare a fondo i meccanismi che governano alcuni social. Purtroppo però non essendoci manuali in proposito, possiamo solo fare deduzioni basandoci su osservazioni empiriche e ipotizzando che l’obiettivo prevalente dei proprietari delle varie piattaforme sia il profitto, la cosiddetta monetizzazione per usare un termine in voga.

Ciò premesso, le direttrici lungo le quali si articolano le strategie sono essenzialmente due. La prima conduce verso l’arcinoto fenomeno delle bolle mediatiche. Le intelligenze artificiali sono straordinariamente brave a trovare affinità tra utenti alimentando noti bias cognitivi di cui tutti noi, volenti o nolenti, siamo vittime. Se venti anni fa qualcuno provava a sostenere al bar che la Terra è piatta, veniva preso in giro dagli altri avventori e la cosa finiva lì. Se adesso quella stessa persona dice la stessa cosa in un post sui social, il lungo sguardo di una gigantesca rete neurale, come l’occhio di Sauron, fa in modo che quel post sia visto da altri terrapiattisti sparsi su tutto il globo terrestre.

E’ come se si mettessero in comunicazione tutti i bar del mondo scovando tutti quelli che sostengono fesserie del genere. E’ succede che quel post comincia a prendere like, commenti di apprezzamento, condivisioni e di conseguenza l’autore del post si monta la testa, percepisce una visione del mondo distorta che gli fa credere che le persone che la pensano come lui siano molte di più che nella realtà. E’ qui c’è la svolta: il terrapiattista acquisisce consapevolezza di sé così come tutti gli altri terrapiattisti che i social mettono in rete ed entra nella spirale di una bolla mediatica in cui si sente a proprio agio come a casa e in cui le proprie idee sballate si radicalizzano sempre più fino a smettere di sentire ragioni e arrivando dunque a far parte di un qualcosa che è diventata in tutto e per tutto una tifoseria.

Ma c’è un elemento importante in questo processo: l’autore del post, forte del sostegno della propria bolla, perde la propria timidezza e acquista coraggio. In questo modo nel grafo delle interazioni si creano delle forti polarizzazioni di terrapiattisti, no-vax, respiriani, anti rettiliani, fascisti nostalgici, complottisti e negazionisti vari. Salta subito alla mente la frase di Umberto Eco, largamente inflazionata, sulle “legioni di imbecilli” a cui i social avrebbero dato voce, ma secondo me non sono imbecilli, è solo gente che noi dall’alto delle nostre bolle – perché ci siamo dentro anche noi – presuntuosamente abbiamo snobbato e non abbiamo voluto ascoltare generando queste prese di posizione che costituiscono certe volte una forma di protesta e di riscatto sociale. Il drammaturgo tedesco Bertolt Brecht una volta disse: “Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati” che a me pare una perfetta interpretazione di queste dinamiche generate dalla rarefazione delle contaminazioni, una rarefazione che alimenta intransigenze reciproche in un gioco di spirali senza uscita in cui ognuno consolida le proprie convinzioni e toglie spazio al dubbio.

Comunque torniamo a noi. Le bolle da sole non bastano a creare l’ambiente social perfetto, serve un altro diabolico ingrediente. E qui entra in azione la seconda direttrice che sfrutta l’enorme capacità mediatica dello scontro. I media tradizionali sanno molto bene che i toni esasperati fanno audience. Sui giornali leggiamo spesso i botta e risposta al vetriolo tra i politici dei vari schieramenti, magari esagerati con titoli civetta, e in TV sono sovente invitati personaggi aggressivi e irascibili che spesso e volentieri innescano liti burrascose i cui spezzoni video sono poi rimbalzati dalle testate online e dai social stessi e di norma sono quelli che hanno più visualizzazioni. Lo scontro piace, attira.

I social lo sanno benissimo e sanno di avere a disposizione una configurazione in cui per ogni tema ci sono due o più bolle contrapposte i cui utenti si sentono forti e coraggiosi grazie alla prima direttrice e sono dunque caricati a molla. Serve solo il casus belli che può anche essere un post tranquillo che mostrato al momento giusto e agli utenti giusti diventa inesorabilmente e pretestuosamente terreno di scontro. Anche qui le intelligenze artificiali sono efficientissime nel dare visibilità ai post promettenti rendendoli virali, nel determinare il mood di ogni singolo commento, nell’attirare l’attenzione degli utenti più iracondi e rabbiosi in modo da mandare in visibilio il pubblico con i pop corn. Risse in cui non c’è alcun confronto costruttivo, ne escono solo odio, rabbia e rancore che spingono a chiudersi ancor di più nella propria confortevole bolla. E tutto questo perché? Semplicemente perché tutto questo “sangue” genera traffico, alimenta le pubblicità, aiuta a profilare meglio ogni singolo utente e spinge molti a pagare per dare più visibilità alla propria idea.

Nel contesto politico il meccanismo è ancora più perverso perché ad agevolare gli scontri ci sono gli agitatori di folle che per mezzo di slogan populisti, l’uso di fake news e il ricorso a squadroni di cavallette umane e account fake, fanno leva sulle fasce di utenti più deboli e manipolabili per spostare a loro favore l’attività degli algoritmi che già di per sé li avvantaggia (e magari mi riservo di approfondire in un prossimo articolo questo aspetto).

C’è da dire però che lo scontro in questo caso non si delinea tra destra e sinistra, bensì contrappone da una parte populisti, negazionisti, complottisti e dall’altra gente normale abituata a riflettere, studiare, approfondire, a confrontarsi civilmente. Ma è una lotta impari vuoi per il numero decisamente a favore dei primi (anche perché spesso i secondi rassegnati e avviliti abbandonano il campo), vuoi per le caratteristiche comunicative intrinseche dei social che prediligono brevi frasi adatte a slogan piuttosto che lunghi discorsi frutto di un ragionamento articolato. Poi è chiaro che in certi partiti politici è presente una concentrazione molto maggiore dei primi rispetto ai secondi ma definirli di destra o di sinistra lo trovo fuori luogo visto che tipicamente non presentano una ideologia profonda e radicata e si schierano liquidamente di qua o di là a seconda del particolare contesto politico del momento.
È una lotta impari, dicevo. È un po’ come giocare una partita di calcio in cui il campo di gioco è in salita verso la porta opposta, gli avversari sono 30 e noi 5, il pubblico è formato sostanzialmente da ultrà pieni di odio e l’arbitro è anche il proprietario dello stadio e soprattutto della biglietteria.

E allora che fare? È meglio abbandonare il campo e perdere a tavolino. In questo modo il pubblico se ne andrà e l’odio piano piano si smorzerà e magari qualcuno di loro potrebbe disintossicarsi e ritornare a pensare nel mondo reale.
La bella notizia è che se avete avuto la pazienza e la caparbietà di essere arrivati fin qui nella lettura allora, a prescindere che siate d’accordo o meno con quanto scrivo, vi trovate quasi certamente dalla parte giusta.