Rapporto deficit – PIL di Maurizio Sella (Presidente di Banca Sella Holding)

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Tratto da “ Lessico Finanziario “ di Beppe Ghisolfi – ARAGNO Editore

Il rapporto deficit/PIL esprime la differenza tra le entrate e le uscite annuali delle finanze pubbliche di un Paese, rapportate al livello del PIL prodotto nello stesso anno: quando le uscite sono maggiori delle entrate si parla di deficit, viceversa di surplus (quando si equivalgono c’è “pareggio”). Nel caso in cui un Paese sia in deficit, tipicamente reperisce i fondi necessari a far fronte alle uscite emettendo titoli di Stato i quali vanno ad incrementare il debito pubblico; quest’ultimo, come noto, alimenta la spesa per interessi passivi che va a sua volta a peggiorare la misura stessa del deficit.

Il deficit/PIL è una delle misure fondamentali dell’equilibrio economico di un paese, perché esprime la capacità di commisurare la spesa nell’anno alle effettive entrate nelle casse statali; il fatto che il deficit non sia in livello assoluto ma sia rapportato al PIL, quindi in percentuale, consente di fare confronti tra paesi diversi, tenendo in considerazione sia la dimensione sia il grado di sviluppo dell’economia di ciascuno. Tale equilibrio va inteso come tendenziale, da realizzare cioè nella media di più anni poiché è normale che transitoriamente un paese sia in deficit visto che quasi tutti i Governi tentano di “stabilizzare” le oscillazioni del ciclo economico aumentando la spesa pubblica nelle fasi di recessione o di rallentamento della crescita, con interventi discrezionali oppure con meccanismi automatici: nelle fasi di contrazione economica si osserva infatti di norma un calo delle entrate poiché la diminuzione degli scambi ed i minori profitti degli operatori portano nelle casse statali minori imposte e tasse; allo stesso tempo, una serie di “stabilizzatori automatici” dei redditi (ad esempio la cassa integrazione, i sussidi di disoccupazione e simili) si attivano in queste circostanze per sostenere le famiglie in difficoltà, determinando maggiori uscite dal bilancio pubblico; come detto, inoltre, i Governi in queste circostanze varano di solito ulteriori interventi discrezionali di spesa pubblica, come ad esempio gli investimenti in infrastrutture ed i piani di assunzioni statali, che contribuiscono ad evitare che il calo di occupazione e dei redditi di imprese e famiglie determinino una pericolosa spirale di “avvitamento progressivo” dell’economia (perché a fronte del calo della domanda le imprese licenziano dipendenti e questi diminuiscono di conseguenza i consumi peggiorando le condizioni delle imprese); uno dei primi e più noti esempi di interventismo statale è costituito dal massiccio piano di investimenti pubblici voluto dal Presidente Roosevelt negli anni Trenta che consentì il superamento della crisi del ‘29 negli Stati Uniti.

Nonostante la presenza di un ragionevole deficit ed il conseguente aumento del debito pubblico siano, come detto, fenomeni fisiologici nei periodi di crisi, è necessario che a questi seguano delle fasi di surplus di bilancio e conseguente decumulo del debito. Qualora ciò non accada e si abbia una persistenza prolungata dello squilibrio tra entrate ed uscite, si è in presenza di un’anomalia. Ovviamente ogni caso è a sé e non si può generalizzare ma, tipicamente, la risoluzione di gravi problemi socio economici richiederebbe riforme strutturali profonde che molto spesso portano, nel breve periodo, sacrifici sui cittadini e dissenso sociale e benefici percepibili, invece, solo a distanza di anni; ciò crea un’asimmetria importante degli incentivi che insistono sul potere politico che deve scegliere tra il coraggio di riforme potenzialmente lesive del consenso elettorale nel breve termine ed interventi di spesa pubblica che possono magari “comprare consenso” politico attraverso stimoli di breve periodo dell’economia. Questa asimmetria può determinare quindi la dilazione nel tempo della soluzione ai problemi maggiori e, al limite, il paradossale trasferimento sulle generazioni successive sia della necessità di trovare soluzioni, sia del debito accumulato attraverso il sistematico susseguirsi di politiche pubbliche in deficit.

Proprio per limitare la discrezionalità di una classe politica a scapito dei successori e, potenzialmente, delle generazioni successive, nei trattati costitutivi dell’Europa unita il rapporto tra deficit e PIL viene limitato al 3% e la regola di fondo è quella del pareggio tendenziale dei conti pubblici. Il deficit/PIL viene anche calcolato escludendo dalle uscite la spesa per interessi generata dal debito pubblico (il cosiddetto “saldo primario”), in modo da isolare, nelle valutazioni sulle politiche fiscali, parte degli oneri derivanti dalle “gestioni” precedenti.