Roma, il PD non sceglie e Calenda si impone

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Una veduta esterna della sede del Partito Democratico in Largo del Nazareno nel giorno della direzione nazionale, Roma, 3 maggio 2018. ANSA/FABIO FRUSTACI

È sconcertante: il Partito Democratico, mentre afferma di essere – per risultati elettorali ottenuti e per debolezza degli alleati di governo – il centro imprescindibile della compagine che governa il paese, a Roma non sceglie ma si fa scegliere da un tipo che entra nel Pd e fa il ministro, esce e fa l’avversario, proclamando la sua fiera opposizione ai 5 Stelle, ma è pronto adesso a mettere la sordina ai proclami, per l’ovvio motivo di non irritare il principale partito dello schieramento che dovrebbe farlo eleggere sindaco.
Un candidato non decisivo

Andando al sondaggio che ha fatto (più o meno) sciogliere la riserva a Carlo Calenda, abbiamo appreso che Calenda da solo non va da nessuna parte (dunque non porta alcun valore aggiunto al centro sinistra). Inoltre, ora sappiamo che raffrontando il suo nome con quello prestigioso ma non molto mediatico di Fabrizio Barca, raffrontando cioè il suo nome con quello di un non candidato, lo supera appena e di misura. Se ne deduce che se il Pd avesse un nome da proporre e sostenere in proprio, Calenda, invece di riempire quest’incredibile vuoto, dovrebbe ritirarsi in buon ordine. Apprendiamo anche che se il centro destra avesse il coraggio di proporre una figura seria per la candidatura al Campidoglio, invece di scegliere dall’album delle figurine Panini, avrebbe molte probabilità di vincere. E non è finita, perché nel gioco mediatico del toto-nomi, non ha spazio la domanda su cosa farebbe l’elettorato dei Cinque stelle se, al secondo turno, dovesse uscire Calenda. Gli elettori di Virginia Raggi voterebbero per il nemico giurato o lo vedrebbero come fumo negli occhi? Se ne deduce che al momento l’unità di partiti e partitini del centro sinistra si è coagulata intorno a una figura che potrebbe vincere le primarie, potrebbe persino passare al primo turno ma difficilmente sfonderebbe al secondo, quello che da accesso al Campidoglio. E qualche maligno pensa che proprio questo potrebbe essere il calcolo dell’enfant terrible (ma ormai invecchiato) della politica italiana: 5 o 6 mesi di palcoscenico romano non per vincere ma per rientrare nella politica nazionale.

E tutto questo a Roma, la città del segretario del Pd Nicola Zingaretti, la roccaforte del governatore del Lazio che, mentre i suoi colleghi delle altre Regioni diventano protagonisti del dibattito nazionale, cede proprio sul suo terreno. La Capitale d’Italia che rischia di rappresentare la débâcle che non c’è stata in Toscana e in Puglia (sì certo, a Roma la débâcle risale al 2016 ma noi romani e di sinistra vorremmo sperare che la condanna non sia definitiva). Insomma, parafrasando il titolo di un libro di Walter Tocci, Roma è una città coloniale.
L’importanza delle primarie

Rimane formalmente aperto ma sostanzialmente chiuso (i partiti della coalizione preferiscono l’accordo ora) il capitolo primarie.

Per i gazebo c’è un ostacolo: la pandemia in crescita. Sabrina Alfonsi, presidente del Municipio 1, vede l’ostacolo come reale ma mette in guardia: “Senza primarie scompariranno le donne, visto che la discussione è tutta declinata al maschile. Inoltre è molto importante che non si scelga solo il candidato sindaco, si devono scegliere anche i presidenti di municipio perché Roma non si governa dal Campidoglio”. Eppure, se davvero si volessero fare, poiché la data verosimile è quella di marzo, si potrebbe gettare il cuore oltre l’ostacolo.

Senza primarie, si rischia di lasciare sotto il tappeto due questioni molto importanti, quello dei progetti e dei temi per Roma e quello della classe dirigente diffusa di una grande città suddivisa amministrativamente in 15 municipi che hanno la dimensione di capoluoghi di media grandezza. Quanto ai temi, Giovanni Caudo, uno dei candidati alle primarie definiti con supponenza da Repubblica “i 7 nani”, e che invece nano non è, spiega: “Nel mio programma la prima delibera sarebbe la devoluzione di poteri e risorse ai municipi. Poiché Calenda sabato sarà a ‘Che tempo che fa’, mi piacerebbe sapere cosa ne pensa. Così come mi piacerebbe sapere se ha un piano strategico sui rifiuti, che tenga insieme – come io credo si debba fare – l’interesse dei cittadini e quello di una innovazione radicale secondo un progetto industriale che metta in campo Ama, Acea e Eni, tale da trasformare in risorsa quello che oggi è un incubo per i romani”.                                                                                                                                       Di Jolanda Bufalini