Sei anni senza Nelson Mandela, l’uomo chiamato libertà

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Nelson Mandela ci lasciava esattamente sei anni fa. Ai suoi funerali –pochi giorni dopo- si precipitò un esercito di Capi di Stato, Presidenti o ex Presidenti, teste coronate e sangue blu di tutto il pianeta: il più alto numero di Uomini di Fama e di Potere che si sia mai visto nella storia, tutti insieme. Certo, molti erano lì per brillare -qualche istante almeno- nella luce della sua fama e della sua grandezza; ma tutti, in ogni caso, avevano capito di dovergli rendere omaggio: i loro rispettivi popoli, altrimenti, non glielo avrebbero mai perdonato. Perché Nelson Mandela era sempre stato un uomo capace di unire: anche quando lottava, anche quando era in carcere, anche e soprattutto quando vinse e governò, quando condusse il suo Sud Africa verso la democrazia, la riconciliazione e la libertà di tutte e tutti.

“Bigger than life”, più grande della vita stessa. E certo la sua vita fu ben più dura, faticosa e intensa di quella che un solo uomo dovrebbe sopportare. Il nome di “Nelson” –così tanto, troppo britannico- gli fu dato solo quando già andava alla scuola elementare. Alla nascita, invece, la famiglia lo aveva chiamato –con un senso profetico che scavalca la leggenda- “Rolihlahla”: letteralmente, “colui che combina guai”. Poi, nei lunghi anni successivi, fu semplicemente “Madiba”: il nomignolo -rispettoso ed affettuoso al tempo stesso- tipico della sua tribù d’appartenenza, l’etnia Xhosa.

Si trovò a vivere in un sistema che era la peggiore porcheria che il mondo potesse offrire in quel momento. “Apartheid”, si chiamava: ed era l’infame regola col quale il Sud Africa provava a sfidare l’umanità, la giustizia, la decenza. Un regime bianco, costruito letteralmente solo su base razziale: i neri non potevano avere alcun diritto, non potevano camminare senza permesso nei quartieri dei bianchi né andare sulla spiagge ai bianchi riservate. Nei negozi, per legge, venivano serviti dopo i bianchi e le poche scuole a loro disposizione erano istituti tecnici ed agrari, per segnare da subito il destino dei neri. Vivevano rinchiusi in ghetti fatiscenti, i neri: niente diritto di voto, naturalmente, né quello di sposare o semplicemente amare un uomo “bianco” o –dio ne scampi- una donna “bianca”. C’era violenza e repressione e carcere per chi vi si opponeva: e Madiba, colui che portava guai fin dal suo nome, vi si oppose con tutte le sue forze.

Nella sua lotta si ispirò a Gandhi e contemporaneamente alla rivoluzione cubana; era profondamente comunista e studiava la via per realizzare la democrazia anche attraverso un lungo e mediato programma di riforme condivise. Ispirava la sua vita e la sua lotta alle poesie (una tra tutte, “Invictus”, quell’immortale inno alla resistenza di William Ernest Henley) e però studiò da avvocato per poter rappresentare al meglio il suo popolo e dargli leggi finalmente giuste. Studiò tantissimo, di tutto: “L’educazione – disse – è l’arma più potente che si possa usare per cambiare il mondo”.

Andrea Malpassi