Una sinistra smarrita tornata al capolinea e orfana dei suoi migliori

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L’ingresso è dall’ultimo cancello della via Tiburtina, quello del Portonaccio. Il custode indica: “Ah, devi d’annà alle tombe dei comunisti”? Al Cimitero del Verano (Roma) c’è il famedio del Pci. Il famedio è una costruzione monumentale destinata a ricordare che lì sono sepolti dei personaggi illustri.

I comunisti italiani sono dei personaggi illustri. Che bella frase mi è venuta riandando alla semplice cerimonia dell’altro giorno, per l’inumazione delle ceneri di Emanuele Macaluso, deposte nel famedio proprio sotto quelle di Palmiro Togliatti e Nilde Iotti, accanto a Bruno Trentin. È irriverente se si pensa che ciò sia accaduto proprio nel giorno della crisi più nera del Partito democratico? S’offende qualcuno se si ricorda che ci hanno avvertito d’essere entrati nell’era del “governo dei migliori” quando qui, nel silenzio del Verano, riposano tanti che migliori lo furono davvero?
Il subbuglio di sentimenti

Un subbuglio di sentimenti agitano in questi giorni migliaia di persone. Gente di sinistra, colta da smarrimento, senso d’impotenza, da crisi di rabbia e di sfinimento. E adesso cosa si fa? Oggi che, come ogni anno, si aggira il segnale di boa della Giornata della Donna, ho risposto anche ad una domanda sui social: “Dite due nomi di donna che vorreste alla guida del Pd”. Ne ho dato uno: Teresa Noce. M’è venuto d’istinto perché fresco di lettura del prezioso testo di Anna Tonelli “Nome di battaglia, Estella” (ed. Le Monnier): la storia, che è quasi un romanzo, di Teresa Noce. Una donna fortissima. Una comunista. Una partigiana. Una grande lavoratrice. Una dirigente del Pci. Una dei “migliori”. C’è una frase di Teresa–Estella Noce che la Tonelli riporta, nel suo lavoro di ricerca e ricostruzione storica, a proposito del ruolo delle donne nella società e nel partito.

Siccome, curiosamente, la crisi del Pd con le dimissioni fragorose di Nicola Zingaretti è stata preceduta solo di qualche giorno dalla polemica sull’agibilità politica assegnata alle donne, queste poche righe cascano a fagiolo. Diceva Noce: “Nel Partito comunista non si deve solo parlare di emancipazione, bisogna cominciare ad emanciparsi”. Stiamo parlando di una donna che fu moglie, poi separata, di Luigi Longo e che nel partito subì, oggettivamente, tante angherie, come racconta con scrupolo e passione la storica Tonelli.
Se si arriva al Capolinea

I fatti dell’oggi e le storie dei grandi dirigenti del Pci, si sono incrociati in questi strani tempi. La scomparsa di Macaluso, per esempio, avvenuta mentre si celebrava il 100° anniversario della nascita del Pc d’Italia, con la scissione di Livorno, ha permesso di fare i raffronti con le dolorose vicissitudini dello schieramento politico di centrosinistra. Ma si possono fare i raffronti con i giganti? Stiamo parlando di tempi in cui le ideologie avevano diritto di cittadinanza.

E Macaluso aveva ben presente questo concetto quando si trovò a giudicare la “fusione fredda” tra Ds e Margherita. Nel 2007 scrisse un libro di 133 pagine e lo intitolò “Al Capolinea” (edizioni Feltrinelli). Cioè: il Pd nasceva e restava fermo. In un passaggio si legge: “Rinnovare le ideologie e i riferimenti culturali non solo è giusto ma necessario, se non si vuole rinsecchire e sparire, però occorre farlo con rigore. È quello che in parte hanno fatto i partiti socialisti europei che sono ancora in campo, e quel che non fecero i comunisti che sono stati travolti. Ma il Pd cosa cerca”? Cosa ha cercato nel decennio trascorso questo “compromesso storico bonsai” (Macaluso cita una definizione di Ugo Intini) tra post-democristiani e post-comunisti?
Appartenere alla sinistra

macalusoInvece, le ragioni della crisi del Pd Macaluso le trovò subito. E lo disse senza remore. “Perché dico no al Pd? Non per motivi ideologici o di appartenenza ad una storia, che pure ha un significato e un valore politico e umano”. La tessera non se la sentì di prendere perché quell’appartenenza era qualcosa d’altro. Probabilmente è qualcosa d’altro, in questi giorni, anche per migliaia di persone che si sentono lontane, apolidi, senza partito. Sentiamo cosa scriveva “Em.ma.”: “Appartenenza per me non significa solo il Pci, al quale ho aderito negli anni del fascismo e della guerra, nel quale ho combattuto le mie battaglie, a volte giuste, a volte sbagliate…appartenenza per me è stata la Sinistra”. Nel suo “Capolinea”, dunque, Macaluso oltre dieci anni fa, intese sottolineare la sua fedeltà a quel “richiamo politico ed umano” che gli è stato sempre ben presente nelle vicende del campo socialista. Uno dei suoi antichi crucci, insieme a quello del complesso rapporto all’interno del mondo sindacale.

È indubbio che tutto quel che accade oggi proviene dagli avvenimenti e dalle scelte compiute a partire dal 1989, dopo la caduta del muro di Berlino e la successiva implosione dell’Urss e del Pcus. Macaluso riconobbe che una delle ragioni per cui non si ricompose l’unità della sinistra stava nel fatto che “i comunisti non si considerarono corresponsabili degli errori del Psi e i socialisti di quelli del Pci”. Ci fu la rinuncia a “cercare il nucleo vitale della loro esperienza, che era stata comune e separata al tempo stesso”. Questo per dire che l’appartenenza aveva per lui un significato che andava oltre alla partecipazione alla vita di un partito, affermandosi come “momento della comune civilizzazione”.
Una rivoluzione organizzativa

Le cose all’interno della sinistra, nel tempo, si sono molto complicate. Se si leggono le risposte di Peppe Provenzano (La Repubblica, 6 marzo 2021) dopo le dimissioni date da Nicola Zingaretti, si coglie la marziana distanza tra l’elaborazione culturale e politica di un “migliore” come Macaluso e lo spettacolo sconfortante del Pd “percepito come partito di potere, anzi partito di eletti”. L’ex ministro ha sottolineato l’esigenza di una “rivoluzione organizzativa”, che vuol dire cambiare volto a questo partito.

Che non è, come spesso erroneamente si sostiene, l’erede del Pci (altrimenti Macaluso si sarebbe iscritto, vien da dire) ma un corpo politico nel campo del centrosinistra, che rischia il dissolvimento o una mutazione genetica. Già Macaluso aveva del Pd la convinzione che si trattasse solo di un “agglomerato” di correnti e capibastone, essendo la sua nascita il frutto di una somma e non di una riuscita sintesi. Il mancato richiamo al socialismo, il lento abbandono della battaglia per i diritti sociali e civili, lo portarono alla conclusione pessimista sul futuro dell’esperimento politico.

Infatti, in un passaggio premonitore, specificò bene: “Non basta dire che il Pd sarà un partito riformista più grande di quelli che ci sono, se poi non è in grado di esprimere politiche, valori e leadership condivise”. Appunto. Siamo tornati al Capolinea.                                                                                       Di Sergio Sergi