Venezia malata, navi “sane”

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Molto meglio di trattati di sociologia, antropologia, economia ha illustrato la questione afroamericana Cassius Clay che raccontò di essersi accorto di non essere più negro quando divenne “The Greatest“. Perché si sa che, gratta gratta, sotto alle differenze e alle disuguaglianze e discriminazione che ne derivano, siano di genere, religione, etnia, pigmentazione. spunta sempre quella di classe.

E quindi il venditore di parei colorato e islamico in Costa Smeralda è malvisto a differenza del compratore di spiagge colorato e islamico ma esponente dinastico degli emirati.

Altrettanto, è perfino banale dirlo, fanno le ultime misure governative nel contesto del prolungamento dell’emergenza, selezionando accuratamente chi fa scalo nei nostri porti a seconda, più che della stazza, del pescaggio, del tonnellaggio, del ceto dichiarato dei passeggeri, accogliendo entusiasticamente i forzati delle crociere che si affacciano festosamente dei ponti delle navi condominio facendosi i selfie davanti al Giglio e a San Marco, mentre vengo respinti irremovibilmente quelli che arrivano già disperati, certamente più di quanto lo saranno gli ospiti di Costa Crociere dopo il salassi di extra che rappresenta il vero business dei nuovi corsari.

E siccome secondo il Presidente del Consiglio del Paese dove il turismo costituisce il 13 del Pil, è arrivato il tempo “ di non pensare a nuove restrizioni, ma di sostenere una effettiva ripartenza”, le navi da crociera “devono ricominciare a viaggiareperché il turismo è un pezzo fondamentale della nostra economia”, contribuendo all’auspicato ritorno alla normalità che significa, con tutta evidenza, che bastimenti a più piani sono autorizzati a sfiorare i masegni di Piazza San Marco attraversando sfrontatamente il Bacino un tempo solcato dal Bucintoro, o che le città d’arte si debbano disporre grate e riconoscenti a essere invase da carovane di turisti ciabattoni, in fila dietro a un ombrellino, accaldati, frastornati, tuttavia compresi e convinti del diritto meritato a usare bellezza, cultura, storia come una merce da consumare frettolosamente in una triste replica dell’alienazione in fabbrica, in ufficio o alla mensa.

Mi immagino già la reazione di chi pensa che l’appartenenza alla costellazione progressista imponga di approvare il turismo di massa come una conquista popolare che la sinistra antagonista combatte per mantenere un’esclusiva in regime di monopolio del godimento del patrimonio artistico e culturale grazie all’esclusiva e elettrizzante convinzione di poter avere il mondo a propria disposizione.

Il fatto è che appena usciamo da casa siamo turisti che vogliono stare dove non ci sono altri turisti, che detestano il turismo, fenomeno accettabile finché era privilegio di pochi, prima che i bus multipiano sostituissero i vettori del Grand Tour, prima che i residenti delle città d’arte venissero assediati, espropriati e espulsi da quelle che interpretano non a torto come orde barbariche indifferenti alla cura e tutela dei loro beni. Quelli che, a leggere le cronache e a guardarsi intorno, insozzano e deturpano a fronte di benefici sempre più ridotti, posseduti da un immaginario colonizzato grazie al quale si aspettano che gli invasi si adeguino alle loro aspettative inscenando una realtà – spettacolo come figuranti e addetti di un parco tematico allestito a loro uso.

E figuriamoci se questi esigenti spettatori invece di camminare per calli e campi, sono abilitati a osservare distrattamente dal ponte n. 7 di una nave il muoversi frettoloso di formiche sullo sfondo di una città condannata a location, ridotta a scenario di cartapesta di una commedia di Goldoni, nell’anticipazione probabile dell’affondamento morale e materiale dell’arrogante Serenissima che adesso che è al loro servizio si fa pagare 15 euro un caffè.

Quelli che guardano al turismo di massa come alla minaccia mossa contro una prerogativa sociale finora mantenuta da una èlite sociale e morale, dotata degli strumenti messi a disposizione da una istruzione “superiore”, ma ancora di più quelli che ritengono che costituisca un diritto inalienabile pigiarsi davanti alla Gioconda, viaggiare stipati in un aereo low cost, dormire in un B&B senza nessuna caratteristica di confort, dovrebbero invece cominciare davvero a pensare a come l’industria del “viaggio” (il turismo, secondo l’antropologo apocalittico Malcom Crick, rappresenta il più formidabile movimento di popolazione umane al di fuori del tempo di guerra) sfrutti e oltraggi non solo il nostro territorio, ma anche il nostro immaginario, la nostra percezione dei luoghi e della vita degli altri, dove gli stereotipi, quelli del pittoresco e della tradizione, diventano i prodotti più taroccati nell’outlet della storia.

C’è chi dice che questo processi di imbalsamazione risponde al bisogno di passato come risarcimento per quello che la modernità ha distrutto o rimosso. E che assomiglia alle liturgie delle giornate della memoria, di quella della donna, del Primo maggio, celebrazioni una tantum di qualcosa che ha perso senso, di qualcosa che per 364 giorni viene sottoposto a un oblio consolatorio della coscienza.

È probabile che sia così soprattutto in un Paese dove riforme dell’istruzione di marca “progressista” hanno provveduto a ridimensionare lo studio della storia, a cancellare l’educazione civica e la storia dell’arte, dove proprio oggi, a fonte della liberatoria per le navi da crociera, restano e resteranno vincoli e limitazioni per l’accesso all’istruzione pubblica che confermano la lesione di un diritto fondamentale e che dovrebbe essere uguale per tutti.

Ma purtroppo la trasformazione di Venezia in mummia da rimirare preferibilmente dall’alto, è stata avviata.

E il paradosso è che – come ormai succede per quasi tutte le città d’arte, sottoposta al maquillage degli impresari per presentarsi bene in occasione del suo fastoso funerale, Carnevale, festival, Redentore, Regata, e per essere esposta a pagamento al compianto di chi vorrebbe accelerare la sua fine, magari per essere presente durante lo spettacolare inabissamento o quando il mostro marino per forza d’inerzia abbatte i quattro cavalli – a trarre profitto dai benefici della mercificazione non sono gli abitanti, nemmeno i connazionali, bensì multinazionali fantasmatiche di armatori, immobiliaristi che beneficiano della cacciata dei residenti, catene commerciali che hanno preso il posto dei negozi e delle attività tradizionali, compagnie turistiche 200 anni dopo Thomas Cook insieme alla gang di AirBnb che ha, anche grazie al Covid, estromesso i piccoli che affittavano la stanza in più consolidando invece il monopolio speculativo dei grandi proprietari.

Ormai Venezia è, come ebbe a dire Mary McCarthy, l’album pieghevole delle sue cartoline, da quando si è fatta strada ingenerosamente anche grazie a un ceto dirigente locale reo di tradimento, che la città sia “patrimonio mondiale” condannandola a assomigliare sempre di più alla sua imitazione a Las Vegas per appagare l’aspettativa distratta dell’immaginario collettivo dei 30 milioni di visitatori (secondo i dati di Paolo Lanapoppi) che ci capitano ogni anno.

Sono loro i veri city users che bivaccano in piazza, fanno pipì in canale, nuotano in Piazza allegramente durante l’acqua granda, vanno in monopattino su e giù per i ponti, ai quali si vorrebbe contrapporre un turismo sostenibile, educato, politicamente corretto, ambedue irriguardosi del destino di una città che prima di essere patrimonio dell’umanità è ancora fatta di gente, poca, memoria, molta ma minacciata, vocazioni, represse, gente costretta nel migliore dei casi a diventare guardiana della sua stessa “casa” convertita in museo, dove arriva la mattina dalla terraferma per poi far ritorno la sera in altri posti senza identità se non quella di bacino di servizio al luna park lagunare.

C’è poco da sperare, la grande menzogna dei benefici immediati e tangibili dell’oltraggio si è affermata. Lungo le tratte segnate dai corsari si avvicinano le loro navi da guerra pronte a rovesciare nella città nei giorni di maggior afflusso oltre 35 mila persone, che producono costi sociali e ambientali ingentissimi: inquinamento dell’aria, del mare, elettromagnetico e acustico, alterazioni dell’equilibrio morfologico della Laguna, indebolimento delle fondamenta, iperproduzione di rifiuti, incremento della pressione antropica.

Effetti questi che non sono minimamente comparabili ai benefici, grazie a un sistema che concentra e privatizza i profitti mentre socializza i danni e che carica i costi su chi non trae reddito né vantaggi, i residenti che sopportano un prezzo di circa 6 mila euro l’anno pro capite, mentre i profitti vanno ai titolari delle agenzie, a società che non hanno sede a Venezia, agli armatori, ai fornitori dei servizi e dei rifornimenti, a quei soggetti cioeè che hanno in mano anche la gestione dello scalo portuale grazie alla privatizzazione del Vpt (Venice Port Teminal, non a caso nello slang dell’impero), quella cordata di armatori riunita nella società Venezia Investimenti in combutta esplicita con la Regione in virtù del suo “braccio” finanziario “Veneto Sviluppo”.

Sono sempre loro che già contrattano le alternative al passaggio in Bacino grazie a nuove vie d’acqua la cui realizzazione è ovviamente affidata al soggetto che ormai opera in regime di esclusiva riunendo in sé tutto e il contrario di tutto, scavi e riempimenti, sporcizia e pulizia, opere e controllo sulle opere, quel Consorzio Venezia Nuova sotto la cui gestione dispotica e assoluta corruzione, malaffare e inefficienza hanno agito a norma di legge.

I futuristi di ieri volevano uccidere il chiaro di luna e l’abuso di stereotipi romantici incarnati dal mito passatista di una città “estenuata e sfatta da voluttà secolari”, colmando “i piccoli canali puzzolenti con le macerie dei vecchi palazzi crollanti e lebbrosi”, bruciando “le gondole, poltrone a dondolo per cretini”. I futuristi di oggi hanno fatto di più, hanno ucciso Venezia.                                                                      (Anna Lombroso per il Simplicissimus)