Antonio Patuelli Presidente di ABI

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Tratto da “ Banchieri “ di Beppe Ghisolfi – ARAGNO Editore
Presidente della Cassa di Risparmio di Ravenna

Sono nato a Bologna nel 1951 da genitori che non andavano d’accordo e che dopo pochi giorni si divisero. Io venni trasferito quasi subito a Ravenna.
Mio padre era un illustre professore universitario di economia e politica agraria a Bologna, pendolare con la natia Chiesuola di Russi (Ravenna), di una famiglia da secoli legata all’agricoltura. Mia madre è stata insegnante e discendeva per parte paterna da una famiglia anch’essa di imprenditori agricoli di Ravenna, mentre mia nonna materna era milanese, figlia di Amilcare Buschini, uno degli inventori della grande distribuzione in Italia, fra i fondatori della Fiera Campionaria di Milano e proprietario della catena di grandi magazzini che è stata poi nota come Standa e che gli eredi vendettero nel 1926 e di cui ho ereditato da mia nonna un decimo che ho investito in azioni della Cassa di Risparmio di Ravenna SpA. Sono cresciuto a Ravenna con mamma e nonni Baroncelli, andando a trovare mio padre a Russi, dove si recava ogni fine settimana e dove trovavo anche nonna, zie e i prozii novantenni e anche centenari. La cultura di fondo delle due mie famiglie di origine era simile. Nessuno era stato fascista, mio padre era stato nel CLN di Chiesuola come indipendente per la DC. Le donne erano molto cattoliche. I riferimenti culturali e istituzionali erano Giovanni Giolitti e Luigi Einaudi, tutti erano rammaricati della morte di Alcide De Gasperi. Giovanni Malagodi era il continuatore di Einaudi. Ho ereditato l’“erre moscia” e i problemi respiratori dei Patuelli. Mio nonno Baroncelli mi ha salvato, con il suo carattere deciso, portandomi a curarmi a Bologna dove vi erano i luminari della medicina, fra cui il Prof. Gasbarrini che veniva chiamato spesso in Vaticano dall’Archiatra Pontificio per consulti su Pio XII. La mia fortissima memoria conserva nitidi ricordi da quando avevo due anni: uno dei primi è la morte di Stalin (marzo 1953) di cui molto si parlava in casa e di cui ricordo la copertina della “Domenica del Corriere”. C’era la “guerra fredda”: la Romagna e l’Emilia erano aree di confine fra Ovest ed Est, dove le convinzioni ed i sentimenti erano più profondi e focosi. Io vivevo anche un’altra “guerra fredda”, fra le mie due famiglie d’origine e dovetti imparare prestissimo le sensibilità diplomatiche per evitare che si acuissero i conflitti interfamiliari. Le scuole le ho frequentate tutte a Ravenna; iniziando un anno in anticipo, che ho mantenuto. Fra i migliori amici che conservo vi sono quelli dei primi anni: l’amicizia per me è innanzitutto lealtà. Alle elementari “Filippo Mordani” (un letterato, patriota risorgimentale, deputato alla Repubblica Romana) ebbi come Maestro anche Bruno Benelli, un repubblicano storico che fu poi Sindaco di Ravenna. Il mio Maestro mi insegnò indelebilmente la Costituzione e i suoi principi, la superiorità della Repubblica e la storia del Risorgimento come base della libertà e della democrazia italiana. Da quando avevo dieci anni ho la consapevolezza dei doveri e dei diritti di cittadinanza. Il mio Maestro ci insegnò anche la partecipazione democratica con l’elezione del capoclasse e del vice, incarichi elettivi a scrutinio segreto che conseguii più volte. Il primo grande trauma fu la morte improvvisa di mio nonno Baroncelli col quale ero affiatatissimo (era la costante figura paterna in casa). Con lui, fin da bambino, andavo nei poderi di famiglia: mio nonno, dolcemente, mi avviò alle responsabilità per l’azienda agricola. Lo seguivo anche quando andava nelle diverse banche citta- dine di cui era autorevole cliente ed ero molto attento ai ragionamenti che svolgeva con i Direttori di banca e con gli altri operatori economici della città. Della famiglia ero l’unico al corrente dei suoi affari che seguivo con passione nei vari aspetti. Quando scomparve avevo 14 anni e dovetti io ricostruire per gli eredi, mamma, zio Antonio e nonna, i conti dell’azienda agricola, degli allevamenti e dei vari immobili. Da allora crebbe in me il senso di responsabilità e la consapevolezza che avrei dovuto anche occuparmi della campagna. Come liceo scelsi lo Scientifico, perché “andavo bene” soprattutto in matematica, oltre che in storia. Da liceale, imparai d’estate ad integrare studio e vacanza, iniziai a utilizzare tutti i tempi liberi dagli obblighi per incrementare molto le letture, un metodo che non interrompo mai, nemmeno in viaggio, neanche in auto. Facevo sport, molta vela in Adriatico e sciavo d’inverno a Madonna di Campiglio e leggevo, leggevo, leggevo, facendo la vita dei miei coetanei, ma mai sprecando tempo.
Nel 1968 ci fu un’altra svolta determinante: scoppiò la “contestazione giovanile” che in Romagna non arrivò nelle forme libertarie con le quali era nata altrove. Nella Romagna della perdurante “guerra fredda” il ’68 venne presto caratterizzato dai sostenitori di Mao, Stalin e Lenin. Veniva anche evocata la violenza come levatrice della storia. Le scuole erano occupate. I miei principi costituzionali mi rendevano distante: in nome della Costituzione e del metodo delle riforme cercavo di parlare alle Assemblee, costituii e animai un gruppo giovanile di “costituzionali” con un giornaletto studentesco, “il Portavoce”, non ebbi paura a non seguire la tendenza prevalente e a dover elaborare in autonomia sempre ragionamenti e ragionamenti. Peraltro nelle estati antecedenti avevo già letto i due volumi principali di Benedetto Croce, le Storie d’Europa e d’Italia, un po’ di Einaudi e le Memorie di Giovanni Giolitti. Soprattutto ben conoscevo i principi e le regole costituzionali. Quel ’68 fu determinante a spingermi all’impegno civile per la libertà e la democrazia nell’accezione occidentale, e condizionò la mia vita fino alla fine della “guerra fredda”. Per l’università scelsi Firenze. A Bologna, frequentata dalla gran parte dei miei amici, non potevo andare perché avrei creato problemi “diplomatici” interfamiliari. Firenze era un altro mondo, nessuno mi conosceva. La città mi affascinò. Innanzitutto la luce più consistente e il clima più mite, confacente ai miei problemi respiratori. Una città attraversata da un fiume che ne amplia il respiro. Imparai tantissimo a Firenze, innanzitutto un più ricco lessico, l’ironia e i caratteri toscani che mi sforzo sempre di non contrastare, l’arte, un mondo diversissimo dalla mia Romagna, da Bologna che molto vivevo e dalla stessa Milano dove, per ragioni di famiglia, avevo spesso e anche a lungo soggiornato. La mia passione per gli studi storici e costituzionali mi spingeva verso la facoltà di Scienze Politiche, che a Firenze era autorevolissima, con la scuola di Maranini, con Sartori, Predieri, Spadolini, Silvano Tosi, Luigi Lotti, Fisichella e tanti altri. Ma saggiamente venni insistentemente costretto ad iscrivermi a Giurisprudenza da una sorprendente convergenza di valutazioni fra i miei genitori e parenti, col concorso anche di taluni maggiorenti ravennati che erano ai vertici della Cassa di Risparmio di Ravenna e della Banca Popolare di Ravenna. Giurisprudenza era nello stesso palazzo di Via Lau
ra dove c’era anche Scienze Politiche: gli istituti erano mischiati e io studiavo Giurisprudenza, ma frequentavo liberamente anche i corsi di Storia e di Diritto costituzionale e parlamentare al “Cesare Alfieri”. Fra Giurisprudenza e Scienze Politiche conobbi tanti Professori e assistenti che avrebbero lasciato importanti tracce in me, non solo universitarie. Mi laureai in Giurisprudenza con una tesi in Storia del Diritto Italiano, con un giovane Professore, Paolo Grossi, che quarant’anni dopo sarebbe stato eletto Presi- dente della Corte Costituzionale. Dal Prof. Grossi imparai soprattutto il metodo della ricerca scientifica. La mia tesi fu proprio di ricerca, sulla trasformazione dello Stato e sul rapporto di “fiducia” nei primi sette anni di applicazione dello Statuto Albertino, la sola Costituzione italiana che sopravvisse alle restaurazioni ottocentesche. Quindi sempre Costituzione. Ma studiavo, scrivevo ove possibile, e vivevo la prosecuzione del “mio ’68” fra i liberali del grande economista e umanista Giovanni Malagodi, già uno dei massimi esponenti della Banca Commerciale Italiana, del costituzionalista Aldo Bozzi e del pedagogista Salvatore Valitutti, e in splendidi rapporti anche con Giovanni Spadolini, che fino alle loro morti mi furono austeri, severi e dolcissimi maestri anche nelle fasi di differenti valutazioni delle tattiche che il mio carattere romagnolo parzialmente fiorentinizzato mi faceva vivere con fortissime passioni. Insomma, vivevo contemporaneamente due esperienze. Una professionale: Giurisprudenza, l’azienda agricola sempre, la Cassa di Risparmio di Ravenna, dove a sorpresa venni eletto nel Consiglio di Amministrazione ad appena 28 anni. L’altra era un’esperienza di assoluto volontariato, prima in minoranza, poi leader dei Giovani Liberali Italiani negli anni più duri del terrorismo, sempre seguendo la cultura e le procedure del costituzionalismo. Poi, a 28 anni, l’elezione a Vice Segretario nazionale del Partito Liberale con quell’intellettuale e galantuomo di Valerio Zanone. Mi occupavo di legislazione, programmi, documenti di organi collegiali, iniziative culturali. Promossi e presiedetti le celebrazioni nazionali dei cinquantenari delle scomparse di Piero Gobetti, Giovanni Amendola, Giovanni Giolitti e del quarantennale di Luigi Einaudi. Venni scelto dal Dipartimento di Stato USA come “giovane leader” italiano e accompagnato in importanti esperienze in USA. Furono anni di forti conflitti, emozioni, amicizie e delusioni, esperienze che mi portarono trentaduenne anche in Parlamento, Deputato eletto con voti e preferenze in una circoscrizione dove un romagnolo liberale non veniva eletto da inizio secolo, dai Ministri giolittiani Rava e Fortis, un atto quasi eroico come disse Spadolini. Lasciai il Consiglio della Cassa, ma rimasi sempre vicinissimo alla Banca e investii quella mia quadriennale esperienza bancaria in Parlamento dove frequentai commissioni economiche, oltre a quella per le Riforme costituzionali. Prima di entrare alla Camera mi sposai con Giulia con la quale ho costruito una famiglia finalmente coesa e solida, arricchita dalla nascita e dalla crescita di Alessia. L’89, che ho vissuto anche con viaggi nei paesi finalmente liberi dell’Est europeo, fu una svolta, fece cadere le spinte e la tensione ideale della “guerra fredda”. Nel corso dell’esperienza nel Governo Ciampi (dovevo essere Sottosegretario alle attività produttive, ma venni mandato alla Difesa) venne approvata la nuova legge elettorale: ero stato fra i promotori dei vittoriosi referendum per la preferenza unica e per il maggioritario, per rigenerare la democrazia italiana. Coltivavo il sogno del sistema uninominale a doppio turno con ballottaggio “alla francese” per il quale presentai anche un documento (che non venne approvato) nella Commissione bicamerale per le riforme istituzionali nel ’92-’93. Invece venne scelto un sistema misto, prevalentemente maggioritario ad un turno con correzione proporzionale e con la diavoleria dello “scorporo”. Intuii subito che non avrebbe rigenerato la democrazia italiana e abbandonai sia la Commissione bicamerale, sia la Vice Segreteria del PLI. Decisi di dedicarmi ad una esperienza di Governo e di preparare il ritorno in banca i cui maggiorenti mi sollecitavano decisamente. Completai fino all’ultimo giorno gli incarichi in Parlamento, nel Governo Ciampi e in Consiglio Comunale di Bologna e ripresi con umiltà e determinazione l’esperienza bancaria che si assommava agli impegni agricoli di sempre. Iniziai a collaborare stabilmente al “Resto del Carlino” e alla “Nazione” (poi anche al “Giorno”) con articoli di cultura storica, economici e istituzionali che (oltre alla rivista culturale “Libro Aperto” che dirigo) mi permettevano di non disperdere e di sviluppare le esperienze di studio e di vita che avevo maturato con tanta passione. Poco più di un anno dopo aver completato gli incarichi parlamentari e di Governo, venni eletto Presidente della Cassa di Risparmio di Ravenna che allora aveva una cinquantina di sportelli. Cambiai ritmi di vita, ma nel frattempo avevo letto tutti gli scritti bancari di Luigi Einaudi e mi ero immerso nelle letture degli scritti e discorsi dei Governatori postbellici della Banca d’Italia e di quelli di Raffaele Mattioli e Giovanni Malagodi alla Banca Commerciale. Quando, negli anni Novanta, vennero varate le grandi riforme bancarie di liberalizzazione, anche con la trasformazione delle Casse di Risparmio in Casse SpA e Fondazioni e poi la legge Ciampi di riforma delle Fondazioni, promossi un percorso originale e innovativo di crescita culturale ed economica della mia Cassa.
Innanzitutto trovai un autorevolissimo partner assicurativo, le Generali, che ci rafforzarono in prodotti e solidità patrimoniale. Poi fui il primo, come Banca SpA, ad avvalermi del nuovo Testo Unico Bancario lanciando un’OPA condizionata su una ottima Banca popolare, la piccola Cooperativa di Imola, con la quale iniziammo un confronto fruttuoso di esperienze complementari. Parallelamente rafforzammo moltissimo il patrimonio della Cassa, in tempi buoni, a cavallo dell’inizio del nuovo millennio, con ingenti aumenti di capitale che ci permisero di raggiungere altissimi indici patrimoniali che sono stati utilissimi negli anni più difficili della crisi. Costituimmo, quindi, poi anche col Banco di Lucca e altre società, un piccolo ed efficiente autonomo gruppo bancario che si avvale di molti prodotti e servizi tecnologici esterni, che si è da subito confrontato con le banche SpA da sempre private. Tutto quel lavoro bancario, oltre a quello di modernizzazione dell’azienda agricola, mi ha portato, a sorpresa, anche l’ambita onorificenza di Cavaliere del Lavoro, firmata dal Presidente della Repubblica Napolitano. Nel frattempo attesi di essere coinvolto nell’associazionismo bancario, il che avvenne alla fine degli anni Novanta, prima nell’ACRI, l’Associazione delle Casse di Risparmio e delle Fondazioni, e poi anche in ABI dove sono entrato nel ’98, come Consigliere e membro del Comitato Esecutivo.
La propensione al confronto innanzitutto con le banche da sempre private mi portò a convincere il Presidente Maurizio Sella e l’emergente leader delle banche private, Camillo Venesio a realizzare un accordo, inizialmente tecnico, di alleanza fra tutte le piccole e medie banche SpA di qualsiasi provenienza e tipologia. Ciò venne realizzato rapidamente e portò Venesio ed io ad alternarci per anni alla Vice Presidenza di ABI e a contrastare con altri, per molti mesi, fra il 2009 e il 2010, la nomina di un Presidente ABI che alcuni vollero in modo irriducibile. La crisi di quella Presidenza deflagrò nel gennaio 2013: io proposi a Venesio di dare la sua disponibilità per la Presidenza e gli garantii ogni appoggio. Venesio non si fece convincere e convinse me ad impegnarmi. Così, in modo improvviso, venni eletto all’unanimità Presidente di ABI in una fase di “tormenta” per le banche e perfino per l’Associazione Bancaria Italiana. Mi soccorse il consenso unanime e l’esperienza insieme bancaria, istituzionale e giornalistica. Il mio impegno è soprattutto di elaborazione programmatica, di guida degli organi che ho reso molto più collegiali, di realizzazione degli obiettivi prioritari e di rappresentanza pubblica, anche sulla stampa e le radiotelevisioni. Una sfida difficile alla quale dedico un impegno intenso e continuo, più assorbente che mai.
Ora i miei orizzonti sono:
• il completamento degli impegni in ABI (dopo molteplici obiettivi raggiunti) per rendere sempre più competitive le normative italiane per le banche con le migliori del resto d’Europa, contribuendo a far crescere e correggere le prime esperienze dell’Unione Bancaria. Non regali alle banche, ma un piano normativo complessivamente non penalizzante, ma competitivo per le banche ed insieme l’economia italiana;
• il proseguimento della crescita, innanzitutto qualitativa, della Cassa di Ravenna e del suo gruppo da sempre privato ed indipendente.