CAPI E NON LEADER, IN RETROMARCIA VERSO LA DISFATTA

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Per dirla parafrasando Sergio Endrigo, il governo appena cominciato è già finito. Possibile? Possibile. Come si spiega? Facile: il difetto, come sempre, sta nel manico. Da quando il carisma ha ceduto il passo alla simpatia, il discorso allo slogan, le radici culturali all’improvvisazione sui social, i leader sono stati sostituiti dai capi. “Capo politico” è infatti la qualifica attribuita nel Movimento 5stelle a Giggino Di Maio. La differenza non è di poco conto. Un leader ha un progetto e guida i suoi seguaci lungo la strada, necessariamente tortuosa e in salita, che conduce alla meta. Un leader è autorevole, un capo può essere solo autoritario. Un capo è tale unicamente perché ricopre quella funzione: non mobilita ma obbliga, non convince ma comanda, non sa ma improvvisa. Soprattutto non crede, non crede in nulla. Vive giorno per giorno assecondando gli umori sociali del momento. Non ha visioni, al massimo sensazioni.

Per scongiurare polemiche, evitiamo di indugiare su quel che capita a destra. Guardiamo a sinistra, che è meglio. Ed è anche doveroso, dal momento che le sinistre sono disgraziatamente al governo. In quel perimetro politico i leader, o per meglio dire i capi, si chiamano Nicola Zingaretti, Luigi Di Maio e Matteo Renzi. Di Leu non sapremmo dire, di Giuseppe Conte ogni dire sarebbe superfluo. Dei tre, quello che esibisce maggiore inclinazione alla leadership è senz’altro Matteo Renzi. Ma anche lui sconta un pensiero breve e una predilezione per la tattica piuttosto che per la strategia. Ha messo su un governo tra Partito Democratico e MoVimento 5 Stelle, se n’è subito dissociato, l’ha cannoneggiato sin dal primo giorno ed ora che il governo, ma guarda un po’, vacilla ne teme lo sbocco elettorale. Gli altri due, in compenso, sono molto, ma molto peggio di lui. Anche un bambino avrebbe capito che l’alleanza Pd-M5s non andava sperimentata in Umbria, terra di scandali e di conflitti esasperati sul piano morale. È andata male, ovviamente. È andata male soprattutto ai grillini. Ma quel che sconcerta è che, senza neanche attendere l’analisi dei flussi elettorali, quando il sole del giorno successivo le elezioni doveva ancora sorgere sia Di Maio sia Zingaretti avevano già archiviato l’idea di rendere strategica un’alleanza nata per ragioni evidentemente tattiche. Come non detto, abbiamo scherzato. Si procede così a tentoni, graniticamente determinati verso la prossima retromarcia. Molte furbizie, nessuna convinzione: uomini senza carattere, leader senza autorevolezza. Semplici capi, in attesa che un colpo di vento li spazzi via.