Carceri: rappresaglie e impunità 20 anni dopo Genova non è cambiato niente

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Ciò che è successo il 6 aprile 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, testimoniato da foto e video espliciti venuti alla luce in questi giorni, è un evento eccezionale?

I detenuti malmenati l’hanno definita “una mattanza”: il massacro di persone inermi da parte di un centinaio di agenti della Polizia penitenziaria, a volto coperto e in tenuta antisommossa; a quanto pare, con il sostegno e la copertura concreta di funzionari di alto livello. Un’esibizione di ferocia che, di eccezionale, ha sicuramente la noncuranza con cui i manganellatori si sono esibiti, pur sapendo che erano accese le telecamere a circuito chiuso della prigione. Escludendo l’ipotesi che non ne conoscessero l’esistenza, prevale la sensazione che fossero sicuri del fatto che le immagini sarebbero rimaste “riservate”.

Cosicché viene spontaneo sospettare che linciaggi del genere non siano un’eccezione. Semmai paiono il frutto di scelte considerate normali e accettabili. Come ha scritto Patrizio Gonnella, presidente di Antigone (l’associazione per le garanzie e diritti nel sistema penale), su il Manifesto dell’1 luglio, questo caso costituisce un “manuale di etnografia carceraria”, basato su quattro elementi: la pianificazione della rappresaglia, la certezza dell’impunità, lo spirito di corpo e il linguaggio. Per giunta, Antigone denuncia: ci sono stati “diversi altri episodi, per i quali abbiamo presentato esposti, in quei giorni, da Opera a Melfi” (nelle carceri c’era agitazione per il diffondersi del Covid); ricorda inoltre che sono appena stati rinviati a giudizio quattro uomini della Polizia penitenziaria di Monza, a causa degli atti di violenza nei confronti di un detenuto avvenuti due anni fa.

C’è ancora qualcuno convinto dell’eccezionalità di questi eventi? Basta leggere The Post Internazionale del 2 luglio per veder vacillare la convinzione. Vi si leggono affermazioni allarmanti di Gennarino De Fazio, segretario generale del sindacato Uilpa della Polizia penitenziaria: “Santa Maria C.V. è solo l’ultimo di altri episodi eclatanti. …Non si può neanche parlare di schegge impazzite o di persone servitori dello Stato che deliberatamente pensano di produrre quel tipo di reati. Probabilmente è un sistema che non funziona, che induce alla degenerazione… Probabilmente chi ha commesso quegli errori credeva di essere nel giusto, non so spiegare come sia successo questo con le telecamere. Certo è che il sistema non funziona, bisogna ripensare l’amministrazione penitenziaria e anche l’architettura del corpo di Polizia penitenziaria. Chi ha sbagliato va isolato e perseguito”.

Ovvio. Però non bisogna puntare il dito soltanto contro gli agenti protagonisti della spedizione punitiva: è troppo facile e, soprattutto, troppo “rassicurante”, perché suona al ritmo del logoro ritornello sulle “mele marce”. Infatti è doveroso accertare la responsabilità penale, sempre personale, dei picchiatori e dei loro mandanti (sul fronte genovese rimasti per lo più sconosciuti e/o impuniti, in certi casi persino promossi; a Santa Maria finiti in parte, per il momento, agli arresti). È ancora più importante sabotare gli oliati ingranaggi di un apparato che, in certe occasioni, insegna a chi ha una divisa che può permettersi la violenza gratuita; in altre parole, può non rispettare la legge, sebbene la rappresenti.

Tutto ciò capita a vent’anni esatti dall’abnorme uso della violenza da parte delle forze di polizia durante il G8 di Genova, incluse un’altra mattanza, nella scuola Diaz, e le sevizie nella caserma di Bolzaneto. Sembra che, un ventennio dopo, prepotenza, violenza e omertà abbiano fatto scuola, con il ripetersi di gravi sospensioni delle garanzie offerte dallo Stato di diritto. Quindi la politica e le istituzioni non sono state in grado di tagliare le radici dell’aggressività, ha cancellare la certezza di poter sfuggire a qualsiasi sanzione.

Per evitare che questa “pedagogia della prepotenza” possa ancora contaminare altri giovani uomini e donne delle forze di polizia, occorrono interventi radicali, non basta di certo una condanna quando i più sprovveduti vengono beccati.

D’altra parte, altri episodi negli ultimi anni hanno segnalato che qualcosa di fondamentale non funziona nell’esercizio del potere repressivo: dalle mattanze di massa fino ad arrivare a casi come quello di Stefano Cucchi e di altri, con la ferocia sfogata contro una singola persona. Occorre riformare tutto il sistema; o, se vogliamo, bisogna “riformare i formatori”, in modo da individuare quelli che incoraggiano metodi degni di un regime dittatoriale. Dove sono? Si tratta solo di qualche fanatico? Oppure sui ponti di comando di caserme e ministeri ci sono alti funzionari che sponsorizzano la barbarie come metodo? Un intervento radicale in questo campo – con lo scopo di esigere sempre il rispetto dei principi costituzionali e dei diritti umani – non è soltanto un’esigenza formale. Serve anche per fornire alla maggioranza degli esponenti delle forze di polizia – quelli che non usano i metodi brutali cari a una cospicua minoranza e che fanno il loro delicato e duro lavoro con coscienza – la possibilità di denunciare chi pensa di poter abusare del proprio ruolo e di disobbedire a certi ordini immorali e illegali. La palla passa, come sempre, ai partiti e alla politica.

Nella speranza che non prevalgano certi leader cosiddetti “sovranisti”, che hanno sempre le felpa pronta per solidarizzare con chi disonora la propria divisa e le Repubblica democratica.

Di Marco Brando