Cile, le cause del risveglio sociale sono profonde

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Il XII congresso della Centrale unitaria del Cile (Cut), realizzatosi a fine gennaio 2020, coincide con un momento di alta tensione e di incertezze su cosa possa accadere, in Cile, nei prossimi giorni e mesi. Da ottobre la rivolta contro il governo non si ferma, i movimenti sociali chiedono risposte, la protesta in piazza è presa dai giovani della periferia metropolitana, pronti a tutto pur di sfidare il sistema, i carabinieri picchiano ed arrestano, il governo tratta, ritratta, prende tempo per capire come uscire da una crisi sociale che gli è scappata di mano, ma non è in grado di dare risposte concrete, il sistema traballa e ogni scenario è possibile.

Nessuno è in grado di sapere cosa succederà domani, e ciò genera paure e paralisi. Ed è in questo contesto che la Cut, a differenza di altre organizzazioni, partiti e istituzioni, ha confermato la realizzazione del suo congresso. Una risposta ai partiti che hanno rinviato le proprie scadenze organizzative ed al governo che ha dovuto rinunciare ad ospitare il summit Onu sul cambiamento climatico. La Cut manda un messaggio chiaro al paese: noi siamo qua, presenti nelle piazze e pronti a gestire il cambiamento partendo da noi stessi, per il bene del paese.

Ed è sorprendente come questa organizzazione, data per finita pochi anni fa, considerata vittima dei suoi stessi intrighi e faide interne, incapace di riformarsi, facile preda dei voleri dei partiti politici, profondamente divisa al suo interno, sia riuscita a riacquistare unità, fiducia, rappresentanza, protagonismo e incidenza nel dibattito e negli eventi nazionali. Una graditissima eccezione nel panorama regionale latinoamericano, dove, nel corso dell’ultimo decennio, siamo stati abituati al contrario, assistendo all’acutizzarsi delle crisi e delle divisioni.

Questa buona novella in buona parte è da attribuire all’attuale gruppo dirigente, composto da rappresentanti delle principali tendenze politiche nazionali storicamente presenti nel movimento sindacale cileno; socialista, comunista e democristiana, che, a differenza del passato, si sono compattate e hanno lavorato insieme, attorno a una presidente, Barbara Figueroa, che ha dimostrato doti di leadership inaspettate. Proprio lei, proveniente da una cultura politica poco propensa alla mediazione e alle alleanze, si è fatta carico di costruire le condizioni per una gestione collegiale, veramente unitaria, della centrale sindacale, e i risultati si sono visti.

La Cut ha superato la profonda crisi interna che nel 2016 l’aveva portata a dover rifare le elezioni per le accuse di frode sulle liste degli iscritti e quindi dei delegati accreditati al voto, impostando la difesa sulla totale trasparenza degli atti e accettando di rifare le elezioni, smontando così le accuse e dimostrando alla propria base di iscritti, di non avere nulla da nascondere, vincendo così la sfida, con il voto, contro chi, invece, avrebbe voluto continuare con un sistema di controllo della centrale etero-diretto dalle segreterie di partito.

Una sfida vinta che ha dato il via ad una stagione di riorganizzazione interna e di protagonismo esterno, ricostruendo il rapporto di fiducia con la base di lavoratrici e lavoratori, con un aumento degli iscritti pari al 15%, denunciando le gravi condizioni di lavoro, lo sfruttamento brutale (oltre le 45 ore lavorative settimanali), i salari da fame, l’assenza di protezione sociale che la maggioranza di questi subiscono costantemente e in modo ampiamente diffuso in ogni angolo del Cile. Ed è stato grazie a questo nuovo protagonismo sindacale che la Cut ha potuto risalire posizioni, riconquistando il ruolo di soggetto di rappresentanza sociale, recuperando affiliazioni sindacali e iscritti. Le lotte per l’approvazione della riforma della legge del lavoro, durante il governo Bachelet, pur con tutti i limiti del caso, sono state un risultato importante, un segnale di capacità di dialogo e di difesa dei diritti fondamentali del lavoro, in un paese dove anche i governi di centro-sinistra non hanno saputo ascoltare, costruire e portare a termine le riforme economiche e sociali indispensabili per ridurre le profonde diseguaglianze che caratterizzano la società cilena.

Disuguaglianze, discriminazioni, ingiustizie che sono esplose dopo trent’anni, per un misero aumento di trenta pesos (equivalenti a meno di 4 centesimi di euro) del costo del biglietto della metro! Trent’anni durante i quali il passaggio dalla feroce dittatura militare alla democrazia non ha significato la fine del modello economico neo-liberale sperimentato in Cile negli anni settanta del secolo scorso, per poi diffondersi in altre nazioni e continenti, ma la sua continuità.

L’educazione, la sanità, le pensioni sono sistemi privati in mano a imprese che fanno del profitto il loro scopo, su bisogni che invece sono diritti universali, inalienabili e inderogabili. Un sistema che prevede ancora la settimana lavorativa oltre le 45 ore, con salari da fame, ampiamente sotto il livello di povertà, dove la discriminazione e la repressione sindacale sono prassi corrente. Un modello di sviluppo schizofrenico che ha determinato una importante crescita economica del Paese tanto da consentire l’ingresso nell’Ocse, il “club dei Paesi industrializzati”, ma con una concentrazione di ricchezza (l’1% della popolazione detiene il 26,5% della ricchezza – fonte: Cepal), sopportabile solamente per il trauma del ventennio del terrore, delle violenze, dei desaparecidos, delle torture, dell’esilio, della paura di un ritorno dei militari, dei ricatti e delle minacce. Trent’anni ci sono voluti per “despertar”, per svegliarsi e dire basta. Trenta pesos hanno acceso la miccia e il paese è scoppiato.

Ora la popolazione, quella invisibile delle baraccopoli, gli studenti, le famiglie di classe media, lavoratrici e lavoratori che vivono con il salario minimo, pensionati derubati dai fondi delle imprese nazionali e straniere, tutti quanti vogliono abbattere il sistema, non vogliono più negoziare riforme, o ascoltare promesse, o assistere a rimpasti di governo o accordi di palazzo tra forze politiche e parlamentari.

La fiducia nei politici e nelle istituzioni è tra il 6% e lo 0%. I movimenti sociali raccolgono consenso ma non controllano la protesta. La sfiducia nel prossimo è oltre il 70%, come pure la speranza in un futuro migliore è considerata possibile solamente da una piccola minoranza della popolazione. Sfiducia, delusione, rabbia, sono queste le opinioni maggioritarie raccolte dal Barometro Sociale, sondaggio richiesto dalla Cut a un centro di ricerca sociale, su di un campione rappresentativo del Cile e realizzato tra dicembre 2019 e gennaio 2020.

Uno scenario molto preoccupante che mette a nudo i rischi di una strategia reazionaria, finalizzata a portare il paese verso una situazione di caos sociale e di crisi economica, fuori controllo, per poi giustificare l’intervento militare, insediando un nuovo regime autoritario e repressivo, riportando l’orologio della storia indietro di trent’anni.

Una sfida che la Cut ha ben chiara e che sta affrontando con maturità politica e con il coraggio necessario, partendo proprio dal dibattito interno che ha portato il gruppo dirigente alla decisione di affrontare una profonda autoriforma interna, presentando all’assemblea congressuale la proposta di voto universale per le prossime elezioni dove si eleggeranno le nuove cariche della Centrale, dai sindacati di base, ai provinciali, fino al livello nazionale. Un/a iscritto/a, un voto, per mandare un messaggio chiaro al paese, che chiede trasparenza e partecipazione di tutte/i, senza giochi e accordi di palazzo e di gruppi dirigenti auto-proclamati.

Una decisione, questa, che è conseguente e coerente con la richiesta di composizione dell’assemblea costituente che i movimenti sociali e il sindacato stanno esigendo dalle istituzioni e che sarà oggetto del referendum del prossimo aprile, dove, oltre a dichiararsi per il sì o per il no alla riforma della Costituzione, la popolazione sarà chiamata a decidere la composizione dell’assemblea costituente, se 50% composta da parlamentari eletti dai partiti e 50% rappresentanti dei movimenti sociali, o se 100% in rappresentanza dei movimenti sociali. La posizione della Cut è chiara: pur non condividendo l’accordo raggiunto dai partiti di governo e di opposizione, la Cut parteciperà ai lavori per il referendum di aprile e sosterrà la scelta della costituente composta interamente (100%) da rappresentanti delle forze sociali, con parità di genere e inclusione dei popoli indigeni.

Ma, il dibattito, va oltre il tema della Costituente che avrà vita lunga, di almeno un paio di anni. La preoccupazione e l’attenzione è per il presente, per la gestione della protesta e per la necessità di dare risposte concrete al debito sociale, oramai insopportabile, che deve essere riconosciuto e pagato il più presto possibile; accesso universale all’educazione e alla sanità, aumento del salario minimo (da 350 a 600 euro/mese) per soddisfare la cosiddetta “canasta basica” (calcolata in poco più di 1.100 euro/mese per una famiglia di 4 persone), riforma del sistema pensionistico privato (Afp) per un sistema pubblico obbligatorio, settimana lavorativa di 40 ore, sono le rivendicazioni e le richieste della popolazione che esigono risposte immediate, in assenza delle quali si determinerà una ulteriore perdita di fiducia e di ulteriore aumento dello scontro sociale in atto, minando pure il percorso parallelo della costituente.

Il congresso della Cut ha approvato un piano di lotta che prevede, alla ripresa delle attività economiche e scolastiche, dopo la pausa estiva, un’agenda di mobilitazioni che, in assenza di risposte concrete da parte del governo, prevede la convocazione di uno sciopero generale nazionale.

La drammaticità del momento ha però una ulteriore emergenza da denunciare e da risolvere: la fine delle violazioni dei diritti umani, il giudizio e le condanne a chi ha torturato, a chi si è reso colpevole di violenze sessuali, a chi ha ucciso e usato violenza nei confronti dei manifestanti. Le cifre riportate dalle associazioni dei diritti umani, le immagini che riprendono l’azione dei carabinieri nelle piazze del Cile contro i manifestanti sono da altri tempi, non appartengono a una democrazia, ed esigono giustizia, verità, riparazione. Per questo la Cut ha lanciato una campagna internazionale per denunciare questi abusi e le inaccettabili violazioni dei diritti umani perpetrate dalle forze armate e dalla polizia cilene, chiedendo solidarietà e pressione internazionale affinché il governo cileno assuma le proprie responsabilità, impedendo che queste azioni violente e repressive non si ripetano più, e consegnando alla giustizia i responsabili materiali e la catena di comando che ha disposto e dato copertura a comportamenti ed azioni violente e lesive dei diritti umani.

È di nuovo il tempo di manifestare la nostra solidarietà con il Cile, non per 30 pesos, ma per 30 anni.

Susanna Camusso, Responsabile politiche internazionali ed europee Cgil; Sergio Bassoli, area politiche internazionali Cgil