“Ed io ti sposo…”, Curiosità sui matrimoni nelle Valli di Lanzo

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VALLI DI LANZO – In ogni società aggregata una delle prime regole è quella di stabilire i principi con i quali formare le famiglie ed i diritti/doveri ad esse collegati.

Nacque così il matrimonio (dal latino matrimonium, che ha per radice mater-matris, cioè madre), in epoca imprecisata e sotto forma diversa rispetto a quelle odierne. Nelle sue prime apparizioni esso serviva al marito per stabilire l’atto del possesso, quasi una schiavizzazione legale; solo col diritto romano il matrimonio diventò “libero accordo”.

L’unica civiltà antica che sanciva la parità tra i coniugi era quella egiziana. In passato, nei contraenti, non c’era spazio per l’amore, predominavano altri elementi determinanti, la volontà dei genitori, la classe sociale, l’etnia, gli aspetti economici… che condizionavano comunque anche la società; solo con il cristianesimo il matrimonio assunse un valore sacro, indissolubile, finalizzato alla procreazione.

Nel Medioevo ci fu un predominio dell’interesse (l’amore fu solo spirituale); nel Rinascimento si impone ancora l’uomo e la necessità di unire ricchezze e poteri; nel Seicento prevale il libertinaggio, con i regnanti ed i potenti che danno il cattivo esempio; dal Settecento il matrimonio comincia ad avere il significato moderno: le rivoluzioni popolari pongono un freno anche all’arroganza ed alle tradizioni libertine del potere; nell’Ottocento il romanticismo cambia volto al matrimonio: ci si sposa per amore. Oggi restano alcune delle tradizioni ottocentesche, come quella dell’abito bianco e dei guanti e ci si sposa, prevalentemente, ancora per amore. Magari più maturi. Il matrimonio è diventato così un’unione legittimata e tutelata dalle leggi, civili e religiose, e dalle consuetudini.

Gli esempi sotto riportati, estratti da una tesi di laurea, lungi dal voler essere esaustivi, intendono proporre una piccola testimonianza su usi ed abitudini nei matrimoni intorno al Settecento nel lanzese e, più specificatamente, nel coassolese. Le note introduttive sono tese a far capire meglio gli stessi esempi.

1. In genere la dote (dos romana) veniva data (promessa o consegnata) all’atto della coemptio cum manu (forma di matrimonio civile con la sottomissione della donna all’autorità del marito e il passaggio della patria potestas dal padre allo sposo). 2. Anche quando il matrimonio fu libero (sine manu), la dote veniva conseguita all’atto del matrimonio, se non prima, quale necessario presupposto ad esso.

3. Dal XV secolo in poi tale discussione appassionò i giuristi e l’evoluzione legislativa trovò un suo equilibrio tra il diritto romano (più rigido) e quello statutario (più equo) nel concetto e nella definizione di “congruità” della dote. Questo principio sancì che la dote “congrua” doveva tener conto di alcuni fattori irrinunciabilmente ritenuti importanti nella realtà: status sociale, ricchezza e patrimonio della famiglia, meriti e comportamenti della figlia da sposare… tali che, a valutarli bene, questi fattori alla fine tracciavano anche una significativa espressione delle condizioni familiari del tempo (XVII/XVIII sec).

4. Scelte e decisioni, economiche e non, si susseguirono e venivano applicate agli sposi – ma principalmente a discapito della sposa – non sempre senza discussioni.

5. Discussioni e imposizioni riguardanti il patrimonio di famiglia, ovviamente, venivano riservate ed indirizzate a favore dei maschi (possibilmente ad un unico erede), a qualunque stato sociale e composizione familiare essi appartenessero, verso i quali ci si sforzava di concentrare il grosso se non tutta l’eredità, ovvero la maggior parte dei beni possibili, soprattutto per evitarne la frammentazione. Alla donna veniva lasciata la “liquidazione” in denaro (mediamente pari a 150/600 lire nei documenti esaminati), con alcune eccezioni che constavano di dotazioni miste. Queste comportavano lasciti in denaro più animali o piccoli beni materiali.

La dote a volte veniva pagata subito davanti a testimoni o al cospetto del “notaro”, a volte in parte subito ed in parte dilazionata, “a promessa…”.

Nella maggioranza dei casi – ma non sempre – essa includeva anche “il fardello” (o “l’arca”: cassa, cassettone o cassapanca più o meno pregiata e lavorata, contenente alcuni beni utili alla sposa ed alla famiglia), ovvero quello che anche oggi è inteso comunemente come “corredo”, e comprendeva, oltre agli indumenti personali della sposa, biancheria per il letto e per la casa, stoviglie, mobili e, nei casi più abbienti, gioie ed argenteria.

La “controdote”, invece, – istituto che comunque dallo spoglio dei contratti notarili dell’epoca si è verificato essere poco usato – constava in una libera elargizione, somma di denaro o di beni, che il marito semplicemente portava nella neonata famiglia per controbilanciare l’apporto dotale. Qualche volta per bilanciare “…la disparità d’età”.

Sul finire del Seicento le monete in corso legale erano tante, le più usate erano “le grosse” (doppie di Spagna, di Savoia, d’Italia…, pari a circa 14-15 lire), e le “piccole”, di valore inferiore alla lira; ma si ricorreva anche alle lire ducali, in pezzi da venti cadauna.

Nei contratti di matrimonio esaminati si fa riferimento solo alle “Lire Regie di Piemonte”.

L’entità e congruità della dote nel diritto lanzese sanciva, allora, in capo alla donna, la “dotem constitutam”, in quanto con atto pubblico ella era esclusa dalla successione ereditaria: “…avuto riguardo al patrimonio paterno…rinunzio a ogni ragione di successione… trovandomi colla somma presente ricevuta congruamente dotata…”.

Ecco alcuni elementi estratti dalle carte contenenti gli atti relativi alle costituzioni di doti della “Tappa notarile di Lanzo”, comune di Coassolo:

Folio 540: data dell’atto fu il 5/2/1770, dopo mezzogiorno, per un matrimonio avvenuto 9 anni prima tra F. S. e M. C. R. S. fu Giò. Essa riceve in dote lire 130 dal fratello, il quale aggiunge, a titolo di predilezione, altre lire 70.

Inoltre M. C. ha ¼ di aumento obnuziale, ma rinunzia sia ai diritti paterni che a quelli materni di successione e di ereditarietà.

A sua volta il marito promette di “servire, custodire, vendere e restituire la dote alla moglie od altri aventi causa”. La dotazione viene riconosciuta “tacita, contenta, completamente soddisfatta”.

Folio 531: in questo contratto del 7/8/1770 invece, per un matrimonio avvenuto 15 anni prima, P. P. accetta la dote di lire 300 per la moglie M. M. V. pur se dilazionata: 160 lire subito, il residuo 4 anni dopo.

Folio 397: per un matrimonio ancora da celebrarsi tra G. F. e G. M. di P., in questo atto del 24/8/1673, vengono concordate 110 lire di dote, da versarsi in 5 anni, “arricchite” però dalla presenza del “fardello”.

Folio 1168: in riferimento a quanto sopra, questo atto appare davvero curioso: G. D. M. e M. M. si erano sposati nel 1758. Eppure, il 22/8/1774 – ben sedici anni dopo, ed alle 3 di notte! – vanno dal notaio e, con la solita promessa del marito a servire e custodire… eccetera…, viene registrato che la sposa riceve 200 lire in dote con l’aumento obnuziale di ¼ e, “ut supra, con il riconoscimento della congruità della stessa dote” (!?).

Questi quattro, brevi esempi raffigurano, come detto, uno spaccato d’usi e costumi, tipici non solo di Coassolo, ma di tutta la zona in quei tempi, e sono da noi qui riproposti esclusivamente a titolo di testimonianza e curiosità.

Non sono state riportate tante condizioni specifiche e di legittima curiosità: i casi di premorienza di un coniuge, le condizioni particolari di alcuni lasciti, diritti e doveri dei figli e dei famigliari… che comunque il lettore più curioso ed attento può ricercare e trovare – con molte altre notizie – nel testo originale della tesi citata, in dotazione alla Biblioteca Civica di Lanzo Torinese.

L’intendimento dello scrivente è volto solo alla curiosità storica dei matrimoni ed alla conoscenza di usi e costumi di quelle zone.

FOTO:

Matrimonio (in chiesa) negli ’30/40 del Novecento. Personaggi sconosciuti.

FONTI:

Prevalentemente notizie tratte da: «Ricerche sui contratti di matrimonio a Lanzo in età moderna»; anno accademico 1984/1985 – Università di Torino, tesi di laurea di Antonio Berta – Relatore: prof. Gian Savino Pene Vidari.

Letture varie e ricerche su Internet.

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