IL PROBLEMA DAVIGO

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La prima riflessione che viene da fare di fronte al precipitare delle polemiche sulla persona del dott. Piercamillo Davigo si traduce in una inconfutabile verità: chi sceglie di vivere da simbolo, deve accettare di esserlo in ogni occasione. Non puoi compiacerti di esserlo nelle tue ormai incalcolabili e sistematiche esposizioni mediatiche, e poi pretendere di proporti come uno dei tanti rappresentanti del Consiglio Superiore della Magistratura, libero di manifestare le proprie idee in una delle tante cerimonie di inaugurazione dell’Anno Giudiziario.
Si spiega così, fuori da ipocrisie e protocolli istituzionali, la dura reazione dei penalisti milanesi, spintasi addirittura alla certamente irrituale richiesta rivolta al CSM di mandare alla cerimonia milanese chiunque altro fuorché l’ormai leggendario ex P.M. di Mani Pulite.
L’Associazione Nazionale Magistrati reagisce con durezza, stigmatizzando le pulsioni censorie che animerebbero i penalisti meneghini nei riguardi di legittime manifestazioni del pensiero.
Ma quella protesta è rivolta ad un simbolo, e per essere più precisi a chi ha scelto di esserlo con un certosino impegno durato anni. Simbolo di tutto ciò che i penalisti italiani da sempre avversano; simbolo di tutto ciò che in definitiva costituisce la ragione fondativa dell’Unione Camere Penali Italiane.
Pier Camillo Davigo ha scelto di diventare orgogliosamente e testardamente simbolo della più esplicita idea inquisitoria del processo penale, condita da una peculiare inclinazione alla divulgazione più schiettamente -e di recente anche volgarmente- populistica di quei principi, vecchi come il mondo e che ciclicamente si sono affermati, purtroppo, nella storia della civiltà umana.
Si tratta di idee che rifiutano il principio stesso di presunzione di non colpevolezza, vissuto con insofferenza e sarcasmo come una bizzarria da suffragette. Idee -per fare un altro esempio- che valutano come irritanti ostacoli alla Giustizia tutte quelle regole che negano il valore di prova piena, direttamente utilizzabile nel giudizio, agli elementi investigativi raccolti in solitudine dal Pubblico Ministero o dalla Polizia Giudiziaria.
Vi è dietro questa ultima petizione, ripetutamente sostenuta dal dott. Davigo, la radicata convinzione autoritaria di una supremazia processuale ed etica della parte pubblica, che guarda con scandalo a chi metta in dubbio che una prova raccolta da ufficiali di Polizia in una stanza di una caserma sia assistita da una presunzione di attendibilità e di verità proprio perché raccolta da un pubblico funzionario.
Davigo è il simbolo di una idea del diritto penale che guarda ad ogni attenuazione di pena, ad ogni anche solo parziale giustificazione di una condotta illecita, come ad una sconfitta dello Stato. Il video, che impazza sui social, di una sua performance obiettivamente straordinaria dal punto di vista dei tempi comici, che prospetta la possibilità che un omicidio volontario possa essere punito con poco più di quattro anni di reclusione, ne è la più lampante manifestazione.
In questo mondo davighiano, l’avvocato è -ormai esplicitamente- un imbroglioncello dalle cui insidie occorre che il processo si difenda; è un soggetto eticamente inaffidabile, che orienta le sue scelte pensando solo al proprio guadagno; e, nei casi più complessi, un favoreggiatore dell’imputato che consentirà al colpevole di farla franca.
Ed allora, invece di invocare protocolli e bon ton dagli avvocati che protestano, la magistratura italiana farebbe bene a fare i conti con ciò di cui il dott. Davigo è simbolo indiscusso, per interrogarsi se questo tacere sull’ormai incontenibile sua esposizione mediatica sia pavidità culturale, cinico calcolo di convenienza per gli equilibri correntizi, o infine piena condivisione di quell’universo di principi. I quali ultimi, secondo noi penalisti, sono tutti fuori -e di gran lunga- dal perimetro costituzionale: ed è ciò di cui occorre seri

Gian Domenico Caiazza