La Raggi può vincere ancora

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Attenzione, attenzione: c’ è un complotto per far ricandidare (e potenzialmente rivincere) Virginia Raggi a Roma. Con una certa atterrita incredulità – mentre la sindaca ci mette del suo, tra nomine filo-Di Maio e un improvviso afflato di terzomondismo antifascista da Compagna sindaca – si sta constatando in questi giorni come trovi nuova linfa, una seconda vita, la celebre frase pronunciata da Paola Taverna il 16 febbraio del 2016, quando il Pd sfoderò lo scintillante nome di Roberto Giachetti per il Campidoglio.

«È incredibile riuscire a proporre per i romani un candidato del genere», sbottò quel giorno la senatrice a Cinque stelle: «Diciamocelo chiaramente, questi stanno mettendo in campo dei nomi perché non vogliono vincere Roma, si sono già fatti i loro conti».

Sommersa all’ epoca dalle cicale del sarcasmo, col senno del poi si può dire che Taverna non avesse affatto torto (semmai, era il Pd renziano ad averli sbagliati, i conti). Fissato questo paletto, è facile vedere come quattro anni dopo si stia ricreando un clima spaventosamente simile, in vista del voto del 2021.

Se non altro (ma c’ è dell’ altro, eccome) per la ridda di nomi sfornati dal Pd. Tra i quali brilla per assenza quello di Michela Di Biase, ex capogruppo Pd in comune, indicata dal 2016 e fino a otto mesi fa come perfetta anti-Raggi, ma ora sparita.

Mentre, in compenso, le opzioni più recenti che il segretario dem Nicola Zingaretti sta facendo testare sono quelle di Roberto Morassut, sottosegretario all’ Ambiente, Massimiliano Smeriglio, eurodeputato, ben due presidenti di Municipio: Giovanni Caudo e Sabrina Alfonsi. E un big: il ministro dell’ Economia Roberto Gualtieri. La lista dei papabili sarebbe persino più lunga: come apoteosi di appeal, però, con Gualtieri siamo già all’ apice.

Prima però di addentrarci negli spasmi del mondo dem, c’ è un dato oggettivo da sottolineare: l’ aria che tira. Pro-Raggi. Una specie di nouvelle vague che riguarda la sindaca, incredibile risultato di un combinato disposto che ha momentaneamente superato la sin qui convincente narrazione di lei come ottava piaga di Roma.

Da un lato la circostanza, del tutto a-politica, che il Covid (che ha devastato Milano) ha misteriosamente risparmiato Roma, assai meno colpita dai contagi. Dall’ altro il fatto che Raggi, su questa circostanza del tutto fortuita, ha saputo pattinare con l’ asciutta ferocia che è forse la sua virtù più consistente.

Con zero dirette Instagram, profilo bassissimo. E invece uscite social di puro situazionismo, come quando fece l’ appello a stare chiusi a casa e lo girò sotto il sole e tra l’ erba di un parco pubblico (dopo aver chiuso anche quelli). Oppure aggiornamenti via via declinanti verso il situazionismo urbanistico: come se fosse appena insediata – sempre in pieno lockdown – Raggi ha sbattuto sui social i suoi due asfalti rifatti, magnificato le quattro ridipinte ciclabili che ormai in Campidoglio si chiamano (alla milanese) «bike lane», ha dispiegato il piano sanpietrini (vale a dire: guardate come rifaccio via Quattro Novembre mettendoci comunque dei mesi), ha invaso di monopattini elettrici il centro storico.

Cercando di far coincidere in sostanza la ripartenza con la sua ripartenza. Manovra prontamente intercettata dal Foglio. Uno dei più impietosi, fino a poco fa, sull’ amministrazione capitolina. Adesso, invece, intento a magnificare «app, creatività, disciplina, e persino le file» dei romani, a definire la città «Raggi o non Raggi» una «Lugano con il sole di Positano», a domandare: «E se fosse Roma la città del futuro?».

Altro che Milano, comunque. Già Masneri e Minuz, in un dialogo sul tema, avevano sottolineato come ormai «Sala è l’ ombra di se stesso, non azzecca più un tono» e adesso «è il perfetto sindaco di Roma», mentre Raggi «sembra politicamente rinvigorita, rinata. Si sente un po’ sindaca di qualche metropoli nordica tipo Copenaghen».

Ora, per misurare quanto questo mood possa essere lontano dalla realtà – senza bisogno di citare i bus in fiamme e le scale mobili fantasma e le metro chiuse – basterà forse ricordare che tra gli ultimi argomenti affrontati nella Commissione Ambiente in Campidoglio c’ è «la situazione dei cinghiali», visto il forte aumento della «popolazione degli ungulati» in città. Ma, in chiasmo con Fauna Capitale, il contesto mediatico è al contrario adattissimo, per far maturare la tentazione della ricandidatura.

In Raggi, ovviamente, anche nel notabilato dei Cinque stelle. E qui entrano in gioco le mosse rapide che la sindaca ha messo a segno negli ultimi tempi. Una doppietta in particolare, a fine maggio.

Punto primo, la visita fondamentale e fotografatissima alla Farnesina di Luigi Di Maio, segnale muto di una richiesta di via libera al capo indiscusso dei Cinque stelle: un placet alla ricandidatura che è arrivato silente, da arguire a contrario per assenza di obiezioni («perché se a Di Maio la cosa non fosse stata bene, l’ avremmo saputo subito tutti», sintetizza una fonte che se ne intende).

Assicuratasi sulla linea di comando, Raggi è poi corsa dall’ altra faccia della luna, per un incontro anche questo sintetizzato in una foto: quella a casa di Alessandro Di Battista, l’ altro tassello fondamentale perché il movimento Cinque stelle sorregga le ambizioni. Qui, da Dibba, Raggi figurava acciambellata nel salotto di casa come se fosse abituata a passarci tre sere a settimana (il che non è). Un altro placet, insomma.

Neanche due settimane dopo questi scatti, martedì 9, è sceso come una stella cadente lo sblocco del rinnovo dei vertici dell’ Auditorium, che si attendeva da ben sei mesi.

Ecco il terzo segnale. Raggi ha infatti rinunciato al nome di Pieremilio Sammarco, suo “dominus” di quando faceva l’ avvocata, e alla presidenza al posto dell’ uscente Aurelio Regina ha voluto la capo ufficio stampa Rai, Claudia Mazzola, che da giornalista del Tg1 seguiva i Cinque stelle ed era assai benvista da Di Maio (a sostituire l’ ad José Ramon Dosal va invece Daniele Pitteri, che guidava la Fondazione Modena arti visive).

Scelte effettuate personalmente dalla sindaca, curriculum che fino al giorno prima non erano neanche arrivati all’ esame della commissione Cultura (ha raccolto le manifestazioni di interesse a novembre: e là il nome di Sammarco c’ era, eccome).

Nomine dalle quali Raggi ha accuratamente tenuto fuori il ministero della Cultura: impallinando sul nascere, mesi fa, il progetto di un ingresso del Mibact nella Fondazione Musica per Roma (in cambio, il comune sarebbe entrato tra i soci della fondazione Maxxi). Nella reciproca indifferenza, sono tuttavia evidentemente lontani i tempi in cui la sindaca e Dario Franceschini, da ministro della Cultura dei governi Renzi e Gentiloni, duellavano a suon di ricorsi a Tar e Consiglio di stato per le nomine dei direttori dei musei e per le competenze del parco archeologico del Colosseo.

Nelle prossime settimane, anzi, si apprestano a costituire insieme il Comitato per i 150 anni dalla breccia di Porta Pia, celebrazioni la cui cassa è appunto in mano al Mibact dopo lo smantellamento, in autunno, della struttura voluta a suo tempo da Carlo Azeglio Ciampi presso la Presidenza del Consiglio.

Oggi, mentre Raggi costruisce il suo percorso, naturalmente negando di «puntare a poltrone» ma spiegando altresì il «valore dell’ esperienza» e il «peccato» che sarebbe «mandarla a perdere», il Pd ne va facendo apparentemente tutto un altro. Così come va facendo apparentemente tutto un altro percorso il più potente dei suoi esponenti, il ministro Franceschini.

Eppure i due cammini tendono a convergere. Per ambizioni e per calcoli. Con una fatalità che può dirsi pari a quella che, a livello nazionale, ha portato al governo giallorosso guidato da Conte – governo che non a caso Raggi difende con il solito sprezzo del ridicolo (è riuscita a dire che «nessuno ha saputo lavorare come ha fatto lui» persino sul «fronte internazionale»: ci vuole del fegato).

Del resto già l’ idea della ricandidatura, alla faccia del limite dei due mandati sempre predicato da M5S, ha una data abbastanza precisa. È quella della festa per i Dieci anni dei Cinque stelle, a Napoli, a metà ottobre 2019, quando dopo aver abbracciato Beppe Grillo e Roberto Fico e aver parlato con Nicola Morra – cioè con tre principali sostenitori del governo col Pd – Raggi aveva parlato dal palco di accoglienza e clima.

«Ricandidati!» le urlavano dalla piazza, prodromo di quel che oggi le scrivono su Facebook: «Grazie sindaca! Stai portando la nostra Roma al livello di una capitale europea, eravamo tanto indietro! Spero tu possa lavorare per un secondo mandato! ». Anche tutto quel battere sul sociale era un prodromo della sindaca antifascista che si vede oggi.

Pronta alla task force per i poveri con la Chiesa di Papa Bergoglio e la Regione di Nicola Zingaretti. Prontissima a scagliarsi «contro i fascisti», come va dicendo per ogni dove a proposito dell’ annunciato (ma senza data) sgombero di Casapound, e anche a proposito della destra di governo, di Alemanno, Meloni, Salvini. Prontissima a presentarsi come la sindaca anti-neri e anti-clan. Quella che fa la guerra agli Spada a Ostia, ai Casamonica a Roma. Molto più vicina, in questo, alla sé stessa degli esordi.

Ad esempio la Virginia equa e solidale dell’ occupazione dell’ ex Lavanderia del manicomio di Santa Maria della Pietà, quando l’ M5S flirtava con Rifondazione e Sel, e dove lei stessa da consigliera comunale d’ opposizione dichiarava che «Roma è una città aperta all’ accoglienza, disponibile al dialogo, al centro di migrazioni e scambi tra diversi popoli». Parole che potrebbe ridire domani, se continua così. Tutt’ altra persona, però, dalla Raggi che accoglieva come uomo ombra Raffaele Marra e accettava la benedizione di Salvini in persona per il Campidoglio: «Al secondo turno, se votassi a Roma, sceglierei la Raggi», aveva detto nel 2016 il capo della Lega. Ed era stato anche quello un prodromo.

Quel tempo, comunque, è andato. Adesso Matteo Salvini è uno di cui lei dice «passava il suo tempo da ministro tra le sagre di paese e i chioschi sulla spiaggia».

Mentre adesso della sindaca uno certo non imputabile di simpatie destrorse come Pierluigi Bersani confessa: «Mi sta simpatica». Segnali eloquenti. Si sa, del resto, che nel Pd un personaggio determinante per tutte le partite romane (e non solo) come Goffredo Bettini veda di buonissimo occhio un sostanziale supporto al Raggi bis.

Non per passione: per tattica. La partita romana va infatti sempre vista nel suo intreccio con il governo nazionale: il 2016 fu per i Cinque stelle l’ anticipo della vittoria alle politiche del 2018 (per Renzi l’ anticipo della sconfitta al referendum); una Raggi bis nel 2021, che corre con il silenzio-assenso del Pd (il «complotto», direbbe Taverna) può essere la miglior assicurazione sulla vita per l’ alleanza giallo-rosa.

Giusto per questo, anche Dario Franceschini – che non ama la Raggi , né ne è riamato – non si metterebbe di traverso: in palio, per lui, c’ è sempre il Quirinale, che il combinato grillini-dem può assicurargli. Insomma: «Il Quirinale val bene un Campidoglio», sintetizza una fonte accreditata dell’ area dem. Affermazione che trova una sua conferma nella sparizione di Michela Di Biase, sua moglie, dai possibili candidati dem a Roma.

Mentre impazza chiunque altro: l’ ex premier Enrico Letta, l’ ex ministro Carlo Calenda, il commissario europeo Paolo Gentiloni, il presidente del Parlamento Ue David Sassoli.

E Zingaretti? Il segretario dem è l’ unico che si fa carico di issare la bandiera del «no alla Raggi». Alla fine qualcuno lo deve pur dire: e il governatore del Lazio, va detto, ha coerentemente sempre escluso di sostenere la sindaca.

Quanto però all’ attendibilità futura di questa convinzione, tocca rifarsi ai precedenti. Dolorosamente. «Mai con i Cinque stelle», aveva detto Zingaretti fino a tre settimane prima di costruire l’ alleanza coi grillini (ma la versione più convinta risale al febbraio 2019: «Io ve lo dico davanti a tutti. E ve lo dirò per sempre. Mi sono persino stancato di dire, e lo trovo umiliante, che non intendo favorire nessuna alleanza o accordo con i Cinquestelle. Li ho sconfitti due volte e non governo con loro»).

«No a un Conte bis», ebbe a dire il 21 agosto 2019, quindici giorni prima che Giuseppe Conte giurasse di nuovo al Quirinale. Prudentemente, adesso , Zinga articola infatti così il suo no: «La ricandidatura di Virginia Raggi? Per i romani questa non è una notizia, ma una minaccia». Una affermazione che, diciamo, resta vera in ogni caso. Anche quando ce la ritroveremo, il prossimo 20 settembre, a celebrare i 150 anni dalla Breccia di Porta Pia, proprio nel giorno delle elezioni Regionali. E chissà con quale afflato, a quel punto                                                                                                                                  (Susanna Turco – l’Espresso)