La storia calpestata

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L’ingresso del Palazzo venne ridisegnato da Gio’ Pomodoro a metà degli anni settanta. C’è una stella intarsiata nel pavimento, dritto davanti il busto di Gramsci e sulla sinistra, dentro una bacheca, la bandiera della Comune di Parigi. Il portone si apriva tutto per consentire l’ingresso di una vettura, solo quella del segretario, ma erano anni difficili e il terrorismo mieteva le sue vittime, anche nella politica e nello Stato.

Lo vivemmo da ragazzi, chi c’era, sentendo la sigla dei telegiornali annunciare una delle tante edizioni straordinarie di quella stagione. Era il 9 maggio e una telefonata riascoltata mille volte aveva comunicato che a cento metri dal Palazzo verso Largo Argentina, in una traversa, Via Caetani, era parcheggiata una Renault rossa, dentro rannicchiato nel bagagliaio il corpo senza vita del Presidente della DC. Perché anche la Democrazia Cristiana aveva da sempre la sua sede a ridosso del Palazzo, cento metri più su, in Piazza del Gesù. Un triangolo che percorri ancora in pochi minuti e dove si è condensato un pezzo di Storia della nazione.

Al Palazzo si accedeva anche dal garage, appena girato l’angolo di Via delle Botteghe Oscure. Lì iniziava Via dell’Ara Coeli che poi si spinge verso il Campidoglio. Di fronte al nostro ingresso, poco sopra, c’era e c’è un portone, lo stabile è signorile e all’ultimo piano, sino a qualche giorno fa ha vissuto il maestro Morricone. Walter Veltroni, immagino sia stato lui, gli chiese di usare la musica di Novecento per un filmato commovente sul tragitto dall’albero della Rivoluzione francese alla Quercia, la lunga parabola di un popolo in marcia.

Dal portone grande sulla via, invece, erano entrati dopo ore di attesa i cittadini e militanti che volevano salutare Enrico Berlinguer dopo il malore e l’agonia di Padova. E sotto quel balcone, in altri momenti, a centinaia si erano assiepati col naso in su ad ascoltare le parole del segretario che si affacciava per commentare una vittoria nelle urne. Perché poi a volte era capitato, a quel partito intendo, di vincere e altre volte no, ma questo tanti anni dopo conta il giusto. Ciò che conta è che dietro e dentro e attorno a quel Palazzo, a quei palazzi, c’era un’anima comune, una passione collettiva sostenuta da lotte, convinzioni, dall’idea di stare nella parte giusta e comunque convinti che la libertà e la democrazia riacquistate dopo il buio a quelle culture fossero debitrici.

Sarebbe bello e saggio che l’uomo dei “pieni poteri”, del “Forza Vesuvio”, l’erede un po’ sguaiato del “me ne frego” pensasse qualche secondo prima di intestarsi l’eredità di un mondo che non solo non gli appartiene, ma semplicemente non conosce. La storia d’Italia è stata grandiosa e tragica.

Ignorarla è una colpa grave. Calpestarla un peccato imperdonabile.