Massimo Fini: Il socialismo (mondiale) deve ringraziare Boric

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Mentre l’attenzione dell’intero pianeta è concentrata sul Covid e sull’azione salvifica della Scienza (guai a criticarla, se lo si fa si passa per un terrapiattista) che invece in questo caso salvifica non si è dimostrata affatto ma anzi, con le sue incertezze, con l’incredibile confusione tra gli addetti ai lavori ha forse aggravato la situazione (si pensi solo alle dichiarazioni, più volte reiterate, che i vaccinati non solo erano immuni ma non erano infettivi, per cui costoro sono andati in giro tranquilli seminando il virus per ogni dove).

Ma in altre parti del mondo stanno accadendo cose meno epocali ma forse più importanti. In Cile le elezioni presidenziali sono state vinte dal giovane Gabriel Boric, barricadero ai tempi della sua militanza studentesca, barba alla Castro che si è fatto radere solo ora che è diventato un personaggio delle Istituzioni. La vittoria di Boric non è importante perché il suo avversario José Antonio Kast è un tedesco e figlio di un nazista (la guerra al nazionalsocialismo, anche se molti non se ne sono ancora accorti, è finita più di 75 anni fa).

La vittoria di Boric è importante perché Kast proponeva una politica ultraliberista, direi turboliberista, ancora più spinta di quella del suo predecessore Sebastiàn Piñera e che è all’origine della disastrosa condizione delle classi popolari di quel Paese. Questo il programma di Boric: nuovo modello di Stato sociale, forte sviluppo del welfare, tasse per i super ricchi, lotta alle ineguaglianze.

Alcuni Paesi europei hanno plaudito alla vittoria di Boric tendendo però a ridimensionarla e a precisare che la sua politica non ha nulla a che fare col chavismo. Lo stesso Boric, forse intimidito, più probabilmente per evitare guai, ha preso le distanze da Chávez. Ma per la verità, a parte la personalità dei due protagonisti, non c’è alcuna differenza tra le teorie di Boric e quelle di Chávez. Prendiamo per esempio il discorso tenuto l’8 maggio 2009 da Hugo Chávez agli studenti di Economia sociale all’Università di Aragua: “Lo diceva anche Aristotele, molto prima di Einstein, nel suo Trattato dei governi, che un sistema – non si parlava all’epoca di capitalismo o socialismo – nel quale una minoranza si arricchisce e si appropria dei benefici che spettano a tutti, e che abbandona la maggioranza alla miseria, è una società invivibile… Ed è questa, se così possiamo chiamarla, la società capitalista: una società che finisce per essere violenta e inumana”.

La vittoria di Boric è importante perché ridà fiato al bolivarismo che è la forma che il socialismo ha preso in Sudamerica. È da decenni che gli americani, i gringos come li chiamano da quelle parti, conducono una lotta senza quartiere contro il socialismo sudamericano. Si cominciò nel 1973 costringendo il socialista Salvador Allende al suicidio e instaurando, sponsor Henry Kissinger, la feroce dittatura di Pinochet (chi ha l’età ricorderà, forse, i tremila prigionieri ammassati nello stadio di Santiago del Cile e il pianista a cui furono tagliate le mani). Si è proseguito nel 2018 eliminando in Brasile Lula con un’inchiesta giudiziaria molto discutibile (e adesso abbiamo Bolsonaro) e si è andati avanti nel 2019 con l’azione diretta, un colpo di Stato che ha fatto fuori il socialista Evo Morales mettendo al suo posto un governo di centrodestra.

Nel frattempo gli americani, con l’appoggio di quasi tutti gli Stati, i governi e i media europei, tranne l’Italia quando era governata da Conte, hanno stretto una morsa economica sul Venezuela di Maduro, l’erede diretto di Chávez, anche se con meno prestigio, bollandolo come un dittatore anche se dittatore non è affatto. Vorrei sapere in quale Stato dittatoriale, autocratico ma anche democratico, uno che ha tentato un colpo di Stato come “il giovane e bell’ingegnere Juan Guaidó” (così lo chiamava la stampa internazionale), pupillo degli americani e loro longa manus, sarebbe ancora non solo a piede libero ma in grado di fare una politica antigovernativa.

Nella democratica Spagna sette indipendentisti catalani, che avevano molte migliori ragioni di Guaidó, sono rimasti in prigione per anni, mentre il loro leader Puigdemont è tuttora in esilio e a tutti quanti è interdetta, santa grazia, ogni attività politica.