Matteo Renzi “se n’è ghiuto”

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Ha aspettato che le elezioni non fossero più possibili, giacché il governo che si è appena formato vuole durare per l’intera legislatura. Ha aspettato che ogni deputato, e soprattutto ogni senatore, fosse importante, se non indispensabile, per il Conte 2. E ha fatto saltare in aria il Pd! Portandosi dietro un numero di parlamentari molto più grande del peso elettorale a cui oggi potrebbe mirare. Gli è che -ricordiamolo- nel 2018 votammo con una legge scritta da un suo fedele, tal Rosato, legge che consegnava ai segretari di partito, e non agli elettori, la scelta degli eletti. E nel 2018 il segretario del Pd era Matteo Renzi. Rieletto dopo la dura sconfitta del referendum costituzionale, portò iò partito al suo minimo storico, il 18,7%.
Cosa possono temere il Pd e Zingaretti da questa scissione, con cui “aprono” oggi tutti i giornali e che il già citato Rosato definisce “separazione consensuale”? Molto, tutto. Quando il segretario del Pd proverà a trasformare in alleanza politica l’attuale matrimonio d’interesse con il Movimento 5Stelle, quando proverà a intestarsi la lotta alla corruzione negli affari, l’ambientalismo di Grillo, le critiche alla politica di potenza di Donald Trump, troverà sulla sua strada un clone del Pd, sempre a fianco degli imprenditori checché facciamo, sempre dalla parte della finanza, la quale farà pure crescere le disuguaglianze ma smuove il PIL, sempre pronto a usare il governo come comitato d’affari che aggiusti gli affari.
Cosa può temere Conte? Poco nell’immediato, perché Matteo Renzi ha interesse che il governo vari la legge di bilancio, che riporti l’Italia in Europa, che faccia assaggiare la polvere dell’opposizione alla Lega e a Salvini. Dopo però, il nuovo partito chiederà il dividendo del suo appoggio. Fine, dunque, della gestione riservata e composta della trattativa. Più di Zingaretti, Renzi indicherà paletti, farà valere un diritto di veto. Fino allo show down della definizione di una nuova legge elettorale. Allora, se i sondaggi gli sembreranno confortanti, proverà a dialogare con Salvini, Prodi e Veltroni. Per riproporre il sistema maggioritario, -suo antico amore-, azzerare la segreteria l’attuale segreteria del Pd, costruire un baraccone centrista e spartirsi la Polonia (il movimento 5Stelle) insieme al caro nemico suo omonimo.
Naturalmente SE! Perché Renzi resta uno sconfitto e torna al centro della scena, certo, per le sue indubbie qualità di politico ma pure per la pavidità dei concorrenti. È uno sconfitto – è stato sconfitto- perché non riesce a guardare oltre il campo di battaglia immediato. Ma nulla sa, nulla comprende e – quel che è peggio- nulla gli interessa del contesto, dei grandi cambiamenti sotterranei che in futuro permetteranno a una delle forze sul terreno di ottenere abbondanti rifornimenti o di spendere una superiore forza produttiva, materiale o ideale.
Ben ricordo l’estate del 2014. Aveva stravinto le Europee, quando Draghi lo chiamò: non puoi proseguire con gli 80 euro, la BCE può aiutare l’Italia solo se tu metti a tacere i falchi, avvii le “riforme”, a partire da una modifica liberista del mercato del lavoro. Renzi capì, ma capiva pure che questa scelta avrebbe interrotto la sua luna di miele con la “sinistra” e la Cgil. Tanto vale “spianarla” prima, pensò il rottamatore. E partì l’attacco alla Camusso, a Bersani, a D’Alema. Intanto preparava una riforma costituzionale e una legge elettorale che avrebbero dovuto favorire un suo pieno controllo del Parlamento. Temeva obiezioni, incertezze, ritorni indietro. Non mio farò paralizzare da tali quisquilie, pensò. Ma così, per furbizia, si fece trascinare in un progetto così strumentale e personale da diventare, alla fine, indigesto.
Non capì che vantare la crescita -assai flebile- del PIL e l’aumento -ancora più flebile- dell’occupazione, era un errore imperdonabile, perché il ceto medio si sentiva sempre più insicuro e minacciato, non potendo aspettarsi per i figli che peggio di quanto i padri non avessero avuto. Non vide che stava crescendo una destra anti mondialista e, soi-disant, anti liberista. Che tale destra, e la crisi del ceto medio, avrebbero messo in crisi ovunque (in Gran Bretagna, in Francia, Spagna e negli Stati Uniti) la forma bipolare, della democrazia rappresentativa. Quella che si esercita nella conquista del “centro moderato”, che si basa su una alternanza fra simili, per cui “chi vince per un voto governa”.
La sua rappresentazione del passato – leggete l’intervista su Repubblica- sa di falso come una campana stonata. Lamenta “il fuoco amico”, sette anni addirittura. Ma fu il suo cannone a far fuoco, contro i “gufi”, contro chi “perde tempo per non perdere la poltrona”, contro “i professoroni”, i giornalisti che si ingozzano di “tartine”. La “presunta sinistra che fa sempre il gioco della destra”. Con me evocò un “impero dei Min”. . Mineo Minzolini. Costrinse Bersani, che gli aveva votato Jobs Act e l’Italicum, a uscire dal partito, ad abbandonare “la ditta”. Sconfitto al referendum, volle Gentiloni a Palazzo Chigi e di lì a poco comincio a sparargli contro a pallettoni. Perdeva, ma la colpa era sempre degli altri.
Zingaretti ora paga per non averlo contrastato, per non averlo costretto ad adeguarsi al nuovo corso o a portarsi via parte del gruppo parlamentare quando il Pd era ancora all’opposizione, e le elezioni erano un’opzione possibile, qualora il governo giallo-verde si fosse ingolfato, come poi è successo. Ora Zingaretti non può che dire quel che dice: “Ci dispiace. Un errore. Ma ora pensiamo al futuro degli italiani, lavoro ambiente, imprese. scuola, investimenti”. E io? Gli ho sempre riconosciuto di essere un politico, mentre i suoi concorrenti ex PCI -dicevo- erano piuttosto “pastori d’armenti”. Ma ho sempre pensato che non vedesse al di là dello scontro del giorno. Può funzionare nei periodi di bonaccia. È un disastro quando -come succede oggi-. tutto cambia nella politica e nell’economia.
Il titolo allude a una frase oscena che Palmiro Togliatti, che si firmava talvolta su Rinascita Roderigo di Castiglia, usò per commentare l’uscita di Vittorini dal PCI; “Vittorini se n’è ghiotto e soli ci ha lasciato”. L’ho scelta per rimarcare la lontananza da quel tempo ma anche l’assonanza.