Non è certo il referendum la ragione per cui non si va a votare

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C’è chi scrive che il 12 gennaio 2020 sia la data cruciale per la Legislatura. È falso. Quella è soltanto la data ultima in cui 1/5 di deputati o senatori, oppure 5 consigli regionali o 500 mila elettori possono avanzare richiesta di referendum confermativo – ai sensi dell’art. 138 della Costituzione – sulla riforma costituzionale che prevede il “taglio dei parlamentari”. E ciò, occorre dirlo, non incide sulla durata dell’attuale Legislatura.

L’articolo 4 della legge di revisione costituzionale prevede che le nuove norme oggetto della riforma “si applicano a decorrere dalla data del primo scioglimento o della prima cessazione delle Camere successiva alla data di entrata in vigore della presente legge costituzionale e comunque non prima che siano decorsi sessanta giorni dalla predetta data di entrata in vigore”. Pertanto la riduzione del numero dei parlamentari diventerà operativa a partire dalla prossima Legislatura, se e solo se trascorressero sessanta giorni dalla sua entrata in vigore (dopo la promulga del Capo dello Stato) senza che il Presidente della Repubblica sciolga prima le Camere.

Cosa vuol dire questo? Semplice. Se il referendum non si tenesse e le Camere fossero sciolte all’interno dei sessanta giorni dalla promulgazione della riforma (quindi presumibilmente entro la metà/fine di marzo), la prossima Legislatura sarà a Costituzione vigente e la riduzione del numero dei parlamentari sarà operativa dalla Legislatura ancora successiva. Se invece il referendum si tenesse, nel caso di esito affermativo dello stesso (cioè qualora vincessero i sì), perché il “taglio” sia operativo già dalla prossima Legislatura devono comunque trascorrere i sessanta giorni di cui sopra dopo la promulgazione (post-referendum) senza alcuno scioglimento delle Camere.

Da ciò ne scaturisce un dato saliente. Se anche il referendum si tenesse, non c’è alcuna ragione giuridica o costituzionale che debba necessariamente tenere in piedi la Legislatura in corso. Il Presidente della Repubblica può sciogliere le Camere in qualsiasi momento, indipendentemente dalla data in cui si terrebbe il referendum costituzionale sul “taglio dei parlamentari”, i cui effetti, in caso di esito confermativo, troverebbero applicazione non nella prossima Legislatura ma in quella successiva.

C’è anche un precedente. La revisione costituzionale del 2005, che prevedeva (anche quella) la riduzione del numero dei parlamentari, fu sottoposta a referendum confermativo a giugno 2006, ma le Camere furono sciolte agli inizi dell’anno con elezioni politiche nel mese di aprile, quindi prima del referendum. Non si vede dunque per quale motivo, pur di tenere in piedi un governo che sta facendo solo danni, si debba per forza giustificare – senza alcun fondamento giuridico – la sopravvivenza di una Legislatura che non rispecchia più, nella composizione dei gruppi parlamentari, la volontà popolare. Eppure una ragione c’è, ma sembrerebbe meglio non dichiararla: il problema non è il referendum, ma la spartizione di oltre 400 nomine in aziende di Stato. La questione del referendum è insomma solo fumo negli occhi.                                     di Paolo Becchi e Giuseppe Palma